La tracciabilità di tessuti e filati è garanzia per i consumatori
La richiesta di trasparenza arriva proprio dalla federazione Smi: «Vogliamo essere misurati per far sapere dove e come si produce. Per un capo che costa poco paga il pianeta»
di Silvia Pieraccini
3' di lettura
Ricordate la lunga, lunghissima battaglia europea per l’etichetta d’origine e il “made in”? Quella battaglia sembra accantonata, affossata da quei Paesi non-manifatturieri che hanno scarso interesse a far sapere al consumatore dov’è fatto un tessuto o un capo d’abbigliamento. Ma quello stesso obiettivo, tanto caro all’industria della moda, potrebbe tornare in auge grazie alla tracciabilità, ingrediente fondamentale per la sostenibilità che sta diventando il tema-guida del mercato.
E il momento giusto per accelerare su questa strada è adesso, sostiene Marino Vago presidente di Smi (Sistema moda italia, la federazione delle industrie del tessile-abbigliamento), visto che è in atto un rallentamento che sta colpendo soprattutto la filiera “a monte”, e dunque i produttori di filati e tessuti, ma che presto potrebbe scaricarsi anche “a valle”, sui produttori di abbigliamento. «La sostenibilità non può esistere senza tracciabilità - spiega Vago - e siccome gli standard di produzione europei sono ben superiori a quelli orientali, dobbiamo far capire al consumatore che se un capo costa poco la differenza di prezzo, al netto della manodopera, la sta pagando il pianeta».
Un esempio? Una maglietta importata in Europa non subisce alcun controllo sulla presenza di sostanze chimiche ammesse dal Reach, mentre i produttori europei sono obbligati a fare tutte le analisi previste da quel registro: «Basterebbe che gli organi competenti dei singoli Paesi europei facessero i controlli sulla moda come fanno sull’alimentare - sottolinea Vago - e il problema sarebbe risolto: non si capisce perché si debbano lasciar passare prodotti che possono causare problemi di salute altrettanto gravi. Noi chiediamo la tracciabilità, chiediamo di essere misurati per far sapere al consumatore dove e come si produce, vogliamo essere trasparenti». Il presidente Smi è fiducioso: «Sono sicuro che si arriverà a questo traguardo. È una misura che si può attuare e che servirebbe in questo momento al settore».
Per il tessile (sia tessuti che filati) il 2019 non è stato un anno brillante. E negli ultimi mesi si è accentuata la dicotomia con l’abbigliamento, che invece ha continuato a marciare.
L’industria della tessitura made in Italy, secondo le stime di Confindustria Moda, nel 2019 ha perso il 4,7% del fatturato, sceso sotto 7,6 miliardi, anche perché l’export (che vale quasi il 55%) ha segnato -3,8%: hanno tirato indietro i mercati più importanti, Germania, Cina, Hong Kong, ma anche Romania, Tunisia e Turchia. Ancora negativi i consumi interni (-4%). Il saldo commerciale ha perso smalto ma si mantiene vicino a 2,3 miliardi.
Andamento simile per l’industria della filatura, che ha visto scendere il fatturato del 5,8% a 2,7 miliardi, penalizzato sia dal mercato interno (-4,5% i consumi) sia dall’export (-4,9% a 806 milioni). Il saldo commerciale segna rosso (-50 milioni). La spia delle difficoltà è il ritorno della cassa integrazione: nel periodo settembre 2018-settembre 2019 la cassa ordinaria, straordinaria e in deroga è cresciuta del 36,5% per il tessile (rispetto ai dodici mesi precedenti) ed è scesa del 19,3% per l’abbigliamento. In particolare la cassa straordinaria ha segnato +64% e -50%. Un segnale che non sembra invertirsi, tra incertezze economiche e, da ultimo, effetti del coronavirus. «In questo momento c’è veramente una situazione complessa - conclude Vago - il rallentamento produttivo cinese rischia di portare anomalie nel mercato, prima fra tutte il fatto che la filiera chimica a servizio della moda, a partire dai coloranti, è ormai delocalizzata nel Far East: per le forniture ci potranno essere difficoltà».
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