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La vera sfida per l’Europa è l’Unione federale

di Sergio Fabbrini

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4' di lettura

È probabile che la Dichiarazione di Roma del prossimo 25 marzo (per i sessant'anni dei Trattati) celebrerà il principio dell'Europa a più velocità. Dopo tutto, è un principio così ambiguo che può essere interpretato a seconda delle convenienze.
Serve ai quattro grandi Paesi (Germania, Francia, Italia e Spagna che si riuniranno a Versailles il prossimo 6 marzo) per dimostrare che non stanno con le mani in mano. Serve ai leader dei Paesi occidentali per condizionare i loro omologhi dei Paesi orientali, evocando la possibilità che siano lasciati indietro. Serve ai leader dei Paesi orientali per tranquillizzare le loro opinioni pubbliche anti-europeiste, rassicurandole che la velocità integrativa dell’ovest non sarà mai quella dell’est.

L’ambiguità è inevitabile quando la discussione sul futuro dell’Unione europea (Ue) continua a essere prigioniera di false alternative. Da una parte c’è chi sostiene che occorra andare avanti alla meglio, dall’altra chi avanza invece la necessità di un grande big bang. Per i primi, ciò che conta è far funzionare la macchina dell’Unione, generare qualche bene pubblico là dove è possibile, adattare il processo integrativo alle esigenze (o alle scadenze elettorali) dell’uno o dell’altro Paese. L’importante è rimanere dentro i Trattati esistenti. Per i secondi, invece, l’Ue deve andare verso una nuova Convenzione costituzionale che rilanci l’obiettivo di un’unione sempre più stretta tra i 27 Paesi, come risposta alle durezze che provengono da Washington e da Londra. L’importante è tenere aperta la possibilità di uscire dai Trattati esistenti.

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Perché si tratta di false alternative? Per i sostenitori del primo approccio (presenti nei vari establishment tecnocratici europei), l’Ue si legittima attraverso i risultati delle sue politiche. Per quelle tecnocrazie, la legittimazione è una proprietà funzionale, non già politica, del processo integrativo. Per loro, ad esempio, è sufficiente che l’Eurozona stia uscendo dalla crisi (come sta avvenendo) affinché si ristabiliscano le condizioni di un nuovo equilibrio. Tuttavia, così non é.
L’Ue non è un’organizzazione internazionale che si legittima solamente attraverso la qualità dei suoi risultati (come, ad esempio, l’accordo di libero commercio tra Canada, Stati Uniti e Messico, il Nafta). Ovviamente, la qualità delle sue politiche conta, ma non basta. Né si può pensare di continuare a mascherare l’operato dell’Ue, come suggeriva Delors, per evitare di sollevare reazioni nazionalistiche. Da tempo è finito il consenso silenzioso al processo di integrazione. Marine Le Pen, Geert Wilders, Matteo Salvini, Frauke Petry sono lì a ricordarcelo. Alla loro sfida politica non si può rispondere con soluzioni tecnocratiche.

Per i sostenitori del secondo approccio (tra cui singoli leader ed esponenti di movimenti della società civile), l’Ue non potrà legittimarsi pienamente fino a quando non diventerà uno Stato federale parlamentare. Uno Stato funzionante sulla base della competizione tra partiti politici europei finalizzata a conquistare il controllo della Commissione, intesa come l’esclusivo governo europeo. Tuttavia, così non sarà. L’Ue non potrà mai diventare uno Stato federale parlamentare in grande, così da riassorbire al suo interno gli stati membri, trasformandoli in Laender come nell’esperienza tedesca. Gli Stati nazionali non si aboliscono con un tratto di penna, né si può pensare di trasformare le loro cittadinanze in un popolo europeo diviso esclusivamente dalle appartenenze politiche (di sinistra o di destra).
Per evitare la trappola delle false alternative, occorre rovesciare la prospettiva e cambiare il paradigma. Per quanto riguarda il paradigma, occorre recuperare l’idea dell’Unione federale, abbandonando sia quella dell’organizzazione internazionale che dello Stato parlamentare seppure federale. Sono i fatti, non già le cattive volontà dei governi nazionali, che impediscono all’Ue di diventare come la Germania. Sono i fatti, non già le cattive volontà degli elettori, che impediscono all’Ue di essere considerata come il Nafta.

Per quanto riguarda la prospettiva, occorre individuare le politiche da condividere in un’Unione federale, separandole nettamente da quelle che dovranno rimanere (o ritornare) a livello nazionale. Una volta individuate quelle politiche, poi si vedrà quali di esse potranno essere perseguite all’interno dei Trattati e quali invece richiederanno di uscire da questi ultimi. Quali sono le politiche che dovrebbero essere gestite da un’Unione federale? L’analisi comparativa delle unioni federali di successo (Stati Uniti e Svizzera), ci dice che esse sono limitate (ma con una valenza giurisdizionale generale, cioè non consentono opt-out). Esse rientrano in tre grandi aree di policy. La prima è quella della sicurezza, area che include la diplomazia, la difesa, l’intelligence e il controllo delle frontiere. Le unioni si fanno per difendersi da minacce esterne e interne. E noi ne abbiamo parecchie da affrontare (senza poter più contare sul sostegno americano). La seconda area è quella economica, area che include la gestione della moneta comune, ma anche la politica fiscale, di bilancio e sociale dell’Unione. Quest’ultima deve dotarsi di un proprio (seppure piccolo) bilancio, basato su una fiscalità autonoma e utilizzabile per sostenere politiche anti-cicliche e sociali, come l’assicurazione europea contro la disoccupazione giovanile o il sostegno alle regioni meno sviluppate dell’Unione. La terza area è quella dello sviluppo, area che include le politiche di investimento nei campi della ricerca scientifica, delle infrastrutture, dell’innovazione.

Queste politiche debbano fare parte di un unico e coerente progetto. Non si può aderire a una policy, ma rimanere fuori da un’altra. La differenziazione nelle politiche non consente ai cittadini di valutare coloro che prendono le decisioni e sostituirli se così ritengono. Contemporaneamente occorre dire che tutte le altre aree di policy dovranno rimanere sotto il controllo degli Stati nazionali che le governeranno sulla base dei loro processi democratici interni. Si dovrebbe anche aggiungere che alcune politiche attualmente gestite dalla Ue (come la politica agricola) è bene che ritornino una competenza nazionale (alleggerendo il budget europeo di 1/3 della sua spesa).
Un gruppo di Paesi (tra cui l’Italia) dovrebbe farsi carico di definire questo progetto e dargli una coerenza istituzionale. È probabile, anzi sicuro, che alcuni Paesi si opporranno a esso, preferendo l’Europa à la carte che rafforza il loro sovranismo. La risposta dovrà essere un rafforzamento del mercato singolo, luogo della collaborazione tra quei Paesi e gli altri. Insomma, invece di scegliere tra false alternative, varrebbe la pena di usare la Dichiarazione di Roma per individuare le politiche comuni che possono configurare l’Unione federale. Tra la miopia tecnocratica che vede solo il giorno per giorno e la presbiopia ideologica che vede solo l’infinito c’è una futura unione federale che si può costruire sin da subito.

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