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Dove si annida la violenza? Dove si nasconde? Ovunque, potremmo rispondere. Perfino nei luoghi, negli angoli più impensati. Perché la violenza, potremmo anche dire, è inscritta di per sé nell'ordine del mondo. O meglio: nel modo in cui tutto ciò che appartiene al mondo filtra attraverso il nostro corpo, la nostra pelle, ed entra dentro di noi; e nel modo in cui poi da lì, dall'interno, risuona nel parlamento che ci abita, formato dai volti e dalle voci di tutti coloro, vivi o morti, con i quali quotidianamente ci confrontiamo e facciamo i conti. Il nostro sé nasce da questa interazione fra noi e il mondo e da questo dialogo attraverso il quale il mondo assume significati diversi all'interno di ciascuno di noi; e la decisione di compiere un gesto violento, o di non compierlo, deriva a sua volta da come ciascuno di noi risponde alle proprie esperienze facendole risuonare dentro di sé. Da come ciascuno di noi, in questo modo, le interpreta.
Può dunque nascondersi anche nelle parole, la violenza, perché anche una parola può risuonare distruttivamente rispetto all'immagine che ciascuno di noi ha o vorrebbe avere di sé, quell'immagine costruita nel nostro parlamento interiore. E se dovessimo scegliere una parola che più di ogni altra appaia inaccettabile rispetto alle dimensioni psicologiche ed emotive del nostro tempo, una sola, forse potremmo scegliere “fallimento”, perché niente come il fallimento sembra contraddire lo spirito del nostro tempo, nel suo essere quasi spasmodicamente votato all'individualismo, alla celebrazione di sé, al successo misurabile a peso. Il fallimento è inaccettabile, non possiamo permettercelo, perché fallire ci collocherebbe fuori dal tempo al quale apparteniamo, ci esilierebbe, ci farebbe diventare indesiderabili. E questo è così vero che da qualche mese, da quando lo scorso luglio un nuovo codice della crisi ha preso il posto della legge fallimentare, la parola “fallimento” è stata addirittura eliminata dal nostro vocabolario giuridico, dove non esiste più come tale: oggi, chi si trovi sommerso dai propri debiti al punto da non riuscire più a farvi fronte non potrà più essere dichiarato “fallito”, bensì dovrà essere dichiarato sottoposto a “liquidazione giudiziale”.
Una parola è stata sostituita da due, proprio per eliminare la potenzialità distruttiva che quella parola portava con sé, al di là dei suoi significati e contenuti tecnici.Che anche una parola, e la parola “fallimento” in particolare, possa avere una portata potenzialmente distruttiva è ora dimostrato e confermato dal caso, clamoroso ma nondimeno esemplare, di cui parla un libro di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, “Io volevo ucciderla”, uscito di recente da Cortina Editore (pp. 434, € 29). Il caso è quello di Stefania Albertani, condannata nel 2011 a vent'anni di reclusione – in rito abbreviato e riconosciutole il vizio parziale di mente – per l'omicidio della sorella, della quale aveva anche occultato il cadavere dopo averlo distrutto dandovi fuoco, e per il tentato omicidio prima di entrambi i genitori e, in seguito, della sola madre. Ed è un libro che non ha precedenti in Italia, “Io volevo ucciderla”; o che forse ne ha soltanto uno in assoluto, il celebre “Io, Pierre Rivière” di Michel Foucault.
Ma Foucault lo aveva lasciato parlare da solo, attraverso gli atti e le memorie processuali, quel ragazzo che aveva sgozzato il fratello, la sorella e la madre. Ceretti e Natali invece no, non la lasciano sola Stefania Albertani: parlano e riflettono con lei, nel corso di una serie di incontri dentro un carcere durati mesi, improntati a quella che i medesimi autori definiscono una “ricerca cosmologica”. Ciò che interessa a Ceretti e Natali è indagare un mondo interiore, un cosmo, una cosmologia: capire “come”, più che “perché”, fossero stati compiuti quei gesti.
Ed è la trascrizione di questi incontri a rappresentare il cuore del libro, a conferirgli un carattere di straordinarietà.Nel caso di Stefania Albertani tutto sembra aver avuto origine dal fallimento dell'impresa di famiglia, di cui lei era o si sentiva responsabile: e quella parola, “fallimento”, nel suo mondo interiore sembra quasi racchiudere in sé stessa, simbolicamente, tutte le relazioni sbagliate, tutte le aspettative deluse, tutte le speranze frustrate. Nessuno potrebbe sostenere che, senza il fallimento, l'omicidio non sarebbe stato commesso; ma nessuno potrebbe neppure più negare, dopo aver letto questo libro, che anche una parola può essere generatrice di violenza, o almeno contribuirvi, anche solo nel suo suono, nella sua risonanza, nella sua potenza evocativa.
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