In città

La vita nelle metropoli? È un mito

Un luogo di meraviglie con «tutto quello di buono che può esistere e prodursi sulla terra»: commerci, cultura, libertà, divertimento. Per gli antichi, la polis è sinonimo di civiltà. A dispetto di disturbatori, politicanti, azzeccagarbugli e cultori del contro-mito della campagna felice

di Giorgio Ieranò

A Milano, piazza Adriano Olivetti e il grattacielo Pirelli

4' di lettura

«A Milano tutto è meraviglioso. Circolano grandi ricchezze, ci sono palazzi innumerevoli e lussuosi. I suoi abitanti sono ricchi di ingegno, hanno la parola pronta e amano i divertimenti». Così scriveva, più di un millennio e mezzo fa, un poeta latino, Decimo Magno Ausonio. Che, intorno al 390 d.C., sotto il regno di Teodosio, intraprese un viaggio attraverso le città dell'Impero romano, descrivendone poi le meraviglie e stilandone una graduatoria in un poemetto intitolato Ordo urbium nobilium.

In questa antica classifica della “qualità della vita” Roma sta al primo posto. Al ventesimo c'è Bordeaux, città natale del poeta, celebrata per i suoi ottimi vini. Milano è settima ma, come si è visto, i luoghi comuni sulla milanesità erano già quelli di oggi: benessere economico, dinamismo e rutilanti divertimenti urbani (la movida, diremmo adesso). Ausonio inaugura un filone che sarà ripreso poi anche nel Medioevo da Bonvesin de la Riva nel suo Le meraviglie di Milano. Ma, alle sue spalle, c'è già una lunga tradizione di elogi della vita urbana.

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Le “piramidi” disegnate dallo studio d’architettura Herzog & de Meuron, sede della Fondazione Feltrinelli e di Microsoft (Milano)

Il fascino vivace della città, la bellezza dinamica della metropoli, lo splendore delle architetture monumentali, la gioia di trovarsi in mezzo a una folla intraprendente e attiva, il piacere di avere ogni divertimento a portata di mano: tutto questo è stato celebrato dagli autori antichi non meno dell'austera dignità della campagna.

Nel III secolo a.C., il poeta Eronda cantava gli splendori di Alessandria d'Egitto, all'epoca la più colta, ricca e vivace città del Mediterraneo: «Tutto quello che di buono può esistere e prodursi in terra lo si trova qui: fortuna, sport, potere, cielo azzurro, gloria, spettacoli, oro fino, bei ragazzi, il Museo, il vino, tutte le cose di cui si può avere voglia. E donne, tante donne, più belle delle divinità».

Fino all'affermazione di Roma, Alessandria incarnò il mito della vita urbana. E ancora nel 640 d.C., quando la città cadde in mano agli arabi, il generale maomettano Amr Ibn al-As la descrisse come un luogo di meraviglie: «Ho conquistato la grande città dell'Occidente e non mi è facile enumerare le sue ricchezze e le sue bellezze. Dirò solo che conta quattromila palazzi, quattromila bagni pubblici, quattrocento teatri e luoghi di divertimento, dodicimila negozi di frutta e quarantamila ebrei».

Il mondo antico, come quello moderno fino alla Rivoluzione industriale, era soprattutto un mondo di contadini e di pastori. Eppure era evidente per tutti che civiltà era sinonimo di urbanesimo. Si dava per scontato che solo in una dimensione urbana l'innato spirito d'iniziativa della razza umana potesse esprimersi al meglio. Una città come Alessandria significava immensi viali monumentali, piazze per commerciare, grandi istituzioni culturali come la leggendaria Biblioteca, teatri e ginnasi dove svagarsi e istruirsi. Ma era anche una promessa di “dolce vita”, un caleidoscopio di divertimenti che faceva sognare chi veniva da fuori. Lungo il Nilo, il sobborgo di Canopo era il luogo di una festa perenne, dove la birra, bevanda nazionale egizia, scorreva a fiumi.

Da sinistra : Stazione Centrale, Triennale e un palazzo in zona Cordusio sempre a Milano

Il geografo Strabone la descrive così: «Quello che impressiona di più è la folla di gente che viene qui da Alessandria, attraverso il canale, per far festa. Giorno e notte, una massa di persone si accalca su barconi galleggianti, suonando musica e ballando, e abbandonandosi ai piaceri più sfrenati, uomini e donne, tutti insieme, senza alcuna vergogna».

Come si evince anche da Strabone, agli elogi della vita urbana fa sempre da contrappunto il loro rovescio. I testi antichi ci descrivono anche lo stress della vita metropolitana, il fastidio per il rumore continuo, la noia delle gazzarre notturne, il disagio che viene dal traffico incessante dei veicoli e dall'accumularsi delle immondizie per strada. Gli epigrammi di Marziale e le satire di Giovenale ci raccontano con vivacità gli aspetti meno gradevoli della Roma imperiale.

Nell'Urbe, dice per esempio Marziale, se si abita in un condominio di un quartiere popolare non si può mai dormire: c'è il fornaio che lavora tutta la notte, il calderaio che non la smette di battere il rame, il bambino lamentoso che chiede l'elemosina, il venditore ambulante che grida. Ogni mattina, dice il poeta, «mi sveglia il riso della gente che passa e ho tutta Roma intorno al mio letto». Seneca, a sua volta, racconta nelle Lettere a Lucilio il disagio di vivere accanto a uno stabilimento termale, cosa che doveva equivalere ad abitare oggi accanto a una discoteca o a un locale notturno dei Navigli milanesi: «Immagina ogni genere di baccano. Se poi arrivano quelli che giocano a palla e iniziano a contare i colpi è finita.

Da sinistra, la sede storica dell’università Bocconi in via Sarfatti, il grattacielo Pirelli fotografato di taglio, il murale del Giardino delle Culture in via Morosini

Aggiungi le risse fra gli attaccabrighe, il ladruncolo colto in flagrante, quello che urla perché gli piace sentire la propria voce mentre fa il bagno, quelli che si tuffano in piscina smuovendo l'acqua con gran fracasso. E poi le grida dei venditori di bibite o di salsicce». Così, all'elogio della vita urbana lo stesso Seneca contrappone l'esaltazione della campagna come luogo di pace idilliaca. La città diventa allora non solo il luogo del caos e del frastuono, ma anche lo spazio degli inganni e delle trame, l'arena dei politicanti e degli azzeccagarbugli. Tutti pensano solo a far soldi o ad accaparrarsi una poltrona.

In campagna, invece, dice Seneca nella sua Fedra, l'avidità e la sete di potere sono sconosciute. Ciascuno ha quel poco che gli basta per vivere, si conduce un'esistenza semplice e tranquilla, lontana dagli intrighi e dai delitti che maturano tra le folle metropolitane. Un'idealizzazione anche questa, naturalmente, così come lo era quella di chi esaltava gli splendori del mondo urbano. Ma, al di là della topica contrapposizione tra città e campagna, era difficile per tutti sottrarsi al fascino della vita metropolitana. Anche chi si lamentava del caos di Roma, alla fine, la lasciava malvolentieri. E, se era costretto a farlo, piangeva lacrime amare, struggendosi di nostalgia per l'animazione dell'Urbe, come il povero Ovidio nel suo esilio di Tomi.

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