editorialedieci anni dopo

La voglia dell’uomo forte vera eredità della crisi 2007

di Harold James

(ddp images/AFP)

5' di lettura

Sono trascorsi dieci anni da quando la crisi finanziaria è diventata internazionale. Fino al luglio 2007, la crisi dei mutui subprime sembrava affliggere soltanto gli Stati Uniti. Ma in seguito, quando due banche regionali tedesche a capitale statale, Landesbank Sachsen e Ikb Deutsche Industriebank, hanno dovuto essere salvate in extremis, all’improvviso i leader politici si sono resi conto di quanto fosse diventato interconnesso l’intero sistema finanziario globale.

Le conseguenze del 2007 sono ancora tra noi. Il suo effetto più devastante e distruttivo è stato quello di incoraggiare misure monetarie non convenzionali. Purtroppo, quando dieci anni fa i policymaker erano disperatamente alla ricerca di un’arma potente come un “bazooka” hanno per così dire preparato la scena per il ritorno di un vecchio personaggio: l’uomo forte che non vede l’ora di premere il grilletto.

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Certo, all’apice della crisi finanziaria i politici erano giustamente pervenuti alla conclusione di non poter fare affidamento sulle modalità operative utilizzate di prassi. Le banche centrali dovevano fornire liquidità su scala massiccia, e i governi dovevano integrare quegli sforzi di politica monetaria con l’espansione fiscale. Di conseguenza, Cina e Stati Uniti in particolare hanno lanciato programmi di stimolo su ampia scala, rispettivamente nel 2008 e nel 2009.

Alcune delle misure straordinarie messe a punto e varate in risposta alla crisi finanziaria si sono rivelate mal concepite fin dall’inizio, e sono state abbandonate o modificate. Negli Usa, il Tarp (Troubled Asset Relief Program) che l’ex presidente George W. Bush ha trasformato in legge con la sua firma nell’ottobre 2008, è stato lanciato come un programma per mezzo del quale il Dipartimento del Tesoro avrebbe acquistato gli asset problematici, in gran parte basati su crediti ipotecari, direttamente dagli istituti finanziari. Quell’operazione tuttavia si è rivelata ben più complicata di quanto si fosse pensato in un primo tempo, e nel volgere di poche settimane il governo ha semplicemente ricominciato a ricapitalizzare le banche statunitensi.

Altre pessime decisioni, però, non sono state modificate con la stessa facilità. Sperando di scongiurare una corsa agli sportelli, il governo irlandese aveva pensato di offrire una garanzia generale di copertura a tutti i depositi bancari. Con quell'unica decisione unilaterale, l'Irlanda ha destabilizzato il resto dell'Europa. All'improvviso, infatti, gli altri governi si sono trovati a temere che i clienti delle loro banche con conti di deposito avrebbero preso il volo in massa diretti alle banche irlandesi, sorrette e protette da ogni rischio (senza che ci si rendesse conto che il costo della garanzia applicata era troppo elevato per il governo irlandese).

Malgrado tutto, comunque, nel complesso la risposta alla crisi finanziaria è stata sorprendentemente di successo, e chi l'ha messa a punto ha avuto buon motivo per andarne fiero, scongiurando così una seconda Grande Depressione. Il fatto è, però, che essendosi rivelate così efficaci quelle politiche non convenzionali adesso sono considerate risposte adeguate e indispensabili per qualsiasi tipo di problema, mentre le tutele costituzionali sono sempre più liquidate alla stregua di mere preoccupazioni di ordine burocratico.

Già nel 2008 l'ex presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, aveva messo in guardia dal fatto che la Fed era «al limite dei poteri a essa conferiti dalla legge e impliciti». Naturalmente, alcuni potrebbero chiedersi perché un policymaker non dovrebbe ignorare quel limite per il bene del suo Paese. Tuttavia, invocare la salus populi suprema lex – la massima secondo cui le leggi dovrebbero riflettere l'interesse comune – è un vecchio metodo utilizzato per legittimare l'autocrazia. In verità, a chi spetta affermare con sicurezza che cosa è nel migliore interesse del popolo, per non parlare di decidere la legge suprema del paese? John Adams, il secondo presidente americano, così scrisse a proposito della pericolosa ambiguità di questo concetto: «Il bene comune, salus populi » scrisse, «è il fine dichiarato di ogni governo, di quello più dispotico come di quello più libero».

L'opinione comune prevalente dopo la crisi è quella che esalta un leader potente, che potrebbe e dovrebbe sistemare le cose da solo (di rado gli uomini forti sono donne). Questo approccio è balzato subito agli occhi nella reazione del governo russo al crollo dei prezzi dell'alluminio nel 2009, quando la perdita dei posti di lavoro e i salari non pagati hanno fatto esplodere manifestazioni su vasta scala in una fabbrica di Pikalevo, 250 chilometri a sudest di San Pietroburgo.
Quando ha visitato Pikalevo, l'allora primo ministro Vladimir Putin ha inscenato una vera e propria umiliazione pubblica del padrone della fabbrica, l'oligarca Oleg Deripaska, chiamandolo «scarafaggio». Putin non ha annunciano nessuna nuova politica a sostegno degli operai russi, ma ciò nonostante la sua performance a Pikalevo è stata accolta come un'audace affermazione del potere dello Stato a fronte degli eccessi del capitalismo.

Gli uomini forti in genere hanno la tendenza a presentarsi come gli unici veramente in grado di risolvere un problema specifico. Per il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte, ciò significa dichiarare “guerra alla droga”, operazione che di fatto ha portato a migliaia di esecuzioni extragiudiziarie. Putin e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan legittimano le loro politiche inquadrandole nell'ambito della guerra al terrorismo. Il primo ministro ungherese Victor Orbán, invece, ha collocato il suo comportamento da autocrate nel solco di una risposta indispensabile alla crisi finanziaria interna. Concentrandosi su un'unica piccola “crisi”, questi dirigenti politici creano l'idea per la quale tutti gli altri problemi si trasformano in crisi che esigono un intervento immediato, efficace e senza restrizioni.

Questa mentalità post-crisi è conforme alla dottrina del “decisionismo” del teorico politico tedesco Carl Schmitt: entrato nel partito nazista nel 1933, egli sostenne che il processo decisionale sovrano è l'elemento centrale dell'intero processo politico. Quando i leader prendono decisioni politiche, dunque, si riappropriano del concetto stesso di sovranità, che era stato eroso poco alla volta e trasformato dalle diverse fasi della globalizzazione.
Secondo Schmitt, il modo col quale i dirigenti politici arrivano alle loro decisioni è di secondaria importanza rispetto al fatto che una decisione sia stata presa. Un sovrano “ha bisogno” di agire con la forza per proteggere gli interessi particolari a rischio. Spesso, questo implica di compiere gesti simbolici. Nel 1930, per esempio, la Smoot-Hawley Tariff Act in America prese di mira ed estromesse dal mercato gli orologi svizzeri, gli articoli giapponesi in seta e altri prodotti iconici importati da altre nazioni.

Il protezionismo odierno non si comporta in modo poi tanto diverso. Si pensi alla minaccia del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di imporre dazi alle BMW e alle Mercedes-Benz, due marchi immediatamente riconoscibili e associati alla Germania.
In risposta alle minacce di Trump, anche l'Europa ha attinto alla politica del simbolismo. Se Trump andrà fino in fondo con le sue minacce, l'Unione Europea potrebbe per rappresaglia prendere di mira il bourbon, un liquore prettamente americano prodotto in grandi quantità in Kentucky, lo stato d'origine del leader della maggioranza al Senato degli Stati Uniti, Mitch McConnell.

Sfortunatamente, questo criterio ha creato un clima politico nel quale le norme invalse sono state erose poco alla volta, senza che altre nuove ne prendessero il posto. Il giornalista britannico di origine sovietica Peter Pomerantsev lo ha detto come meglio non si potrebbe nel titolo del suo brillante libro sulla vita post-sovietica: «Nothing is true and everything is possible»nulla è vero e tutto è possibile. Adesso che la crisi è stata normalizzata ed è diventata una condizione permanente, siamo tutti post-sovietici.

Harold James è professore di storia e Affari internazionali all'Università di Princeton
Traduzione di Anna Bissanti

Riproduzione riservata ©

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