Scenari globali

La voglia di regolare il commercio è sopravvissuta a Trump

La ricomposizione della frattura con l’Europa è anche un modo per riscrivere le regole degli scambi con la Cina

di Gianmarco Ottaviano

(Adobe Stock)

4' di lettura

Il rancore tra le parti non è mai una buona premessa per fare affari. Eppure, almeno superficialmente, la politica commerciale degli Stati Uniti degli ultimi anni ha dato a molti l’impressione di essere come guidata da un risentimento tenacemente covato in seguito a un qualche torto ricevuto. Almeno questa è stata l’impressione durante le presidenza di Donald Trump.
È cambiato qualcosa con Biden?

Come riportato in un documento del Congressional research service (Crs), un servizio di informazione apartitico del parlamento statunitense, l’amministrazione Trump sosteneva che i negoziati e gli accordi commerciali degli Stati Uniti non riuscivano a far fronte efficacemente alle pratiche protezionistiche degli altri Paesi a danno delle imprese e dei lavoratori statunitensi. Citava come prova la crisi delle industrie Usa esposte alla concorrenza estera, le loro difficoltà a penetrare nei mercati esteri e i grandi deficit commerciali che gli Stati Uniti continuavano ad avere, anche con Paesi con i quali erano in vigore accordi di libero scambio. Sosteneva che l’obiettivo della politica commerciale degli Stati Uniti non doveva essere il libero scambio, ma uno scambio «equo» e «bilanciato». Poiché il libero scambio non sembrava in grado di essere anche equo e bilanciato, era necessario ricorrere a uno «scambio gestito» («managed trade»), cioè ad accordi commerciali internazionli che ponessero l’enfasi su risultati misurabili in termini di quantità scambiate e quote di mercato.

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È quello che – secondo quanto discusso recentemente sul «Wall Street Journal» da Chad Bown del Peterson Institute for International Economics di Washington – cominciò a fare Donald Trump nel 2018 con l’imposizione di dazi su quasi tutte le importazioni statunitesi di alluminio e acciaio, senza distinzione, sia che provenissero da alleati come l’Unione europea che da concorrenti come la Cina. La risposta della Ue fu una raffica di dazi sulle merci provenienti dagli Stati Uniti. In quell’occasione si creò un’inedita frattura tra Washington e Bruxelles, accentuata anche dal rifiuto delle autorità europee di scendere a patti accettando la logica dello scambio gestito.

Concretamente, gli obiettivi misurabili dello scambio gestito non si perseguono con dazi che, facendo lievitare i prezzi delle merci importate per i clienti finali, ne scoraggiano l’acquisto, ma direttamente attraverso restrizioni sulle quantità scambiate di determinati prodotti. Queste “restrizioni quantitative” possono riguardare il numero di unità, il peso, il volume o anche il valore. Gli strumenti principali con cui possono essere messe in atto sono i divieti, i contingentamenti, le licenze e le restrizioni volontarie all’esportazione (Ver, Voluntary export restraints).
Un divieto nega la possibilità di importare o esportare un prodotto. Il contingentamento determina una quantità massima che può essere importata o esportata. I requisiti di licenza richiedono ulteriori documenti come prerequisito per l’importazione in aggiunta a quelli previsti a fini doganali. I Ver sono limitazioni alle quantità commerciate che i Paesi esportatori si impongono da soli.

Come i dazi, anche le restrizioni quantitative comportano una riduzione delle quantità scambiate e un aumento dei loro prezzi. Perché allora l’Unione europea preferì una risposta conflittuale in termini di dazi a un accordo pacifico in termini di restrizioni quantitative? La risposta ce la dà il Crs. Un principio fondamentale del sistema di scambi multilaterale promosso dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) è che i dazi sono da preferire alle restrizioni quantitative per varie ragioni, sia economiche che pratiche. In primo luogo, i dazi sono più trasparenti e facilmente verificabili. In secondo luogo, non impongono limiti assoluti alle importazioni, la cui congruità è di difficile valutazione prima di imporli. In terzo luogo, per esperienza pregressa, un’eventuale riduzione dei dazi è più facile da negoziare di una rimozione delle restrizioni quantitative. Il gettito dei dazi va, infatti, ai governi; le rendite generate dalle restrizioni quantitative vanno alle imprese. Mentre Trump si poneva in rotta di collisione con l’Organizzazione mondiale del commercio, l’Unione europea preferiva sostenerne i princìpi.

Con l’amministrazione Biden le cose sono cambiate. Si ha meno l’impressione di un atteggiamento americano rancoroso. Ma, soprattutto, la frattura transatlantica si sta ricomponendo per questioni geopolitiche nell’ambito delle interazioni (e delle tensioni) triangolari tra Cina, Europa e Stati Uniti.

A ottobre, tornando sui suoi passi, l’Ue ha siglato un nuovo accordo sull’acciaio con gli Stati Uniti che, come evidenzia Bown, incorpora aspetti tipici dello scambio gestito. In base all’accordo, nel 2022 l’Ue potrà esportare oltreoceano 4,4 milioni di tonnellate di acciaio senza dazi. Tuttavia, le eventuali quantità esportate al di sopra di tale soglia saranno soggette ai vecchi dazi trumpiani. In cambio, l’Ue alleggerirà i propri dazi imposti sulle merci americane nel 2018 in risposta a Trump.

Accordi di questo tipo sono già stati firmati con Canada e Messico e altri sono in via di negoziazione con Giappone e Regno Unito. Tuttavia il convitato di pietra è chiaramente un altro.
L’obiettivo di Washington è infatti quello di far capire alla Cina che c’è un limite alle importazioni (di acciaio in questo caso) negli Stati Uniti, oltre il quale nessun Paese esportatore, alleato o concorrente che sia, potrà andare. Più in generale,
la ripresa del dialogo tra le due sponde dell’Atlantico segnala la volontà di Bruxelles e Washington di lavorare insieme allo sviluppo di nuove regole per il commercio con la Cina, che viene considerata come una preoccupante fonte di turbolenze in mercati globali come quello dell’acciaio, nei quali in un ventennio è passata da essere un attore marginale a ricoprire un ruolo di protagonista assoluto.

Il problema è che le restrizioni quantitative sono già state usate massicciamente nel secolo scorso con gli stessi obiettivi, anche se allora la minaccia alla supremazia economica americana si chiamava Giappone. Per esempio, negli anni Ottanta i semiconduttori giapponesi stavano diventando dominanti nel mercato statunitense. Nel 1986 l’amministrazione Reagan convinse Tokyo a impegnarsi nella riduzione delle proprie vendite a livello globale e, quando alle promesse non seguirono i fatti, Washington impose dazi punitivi. Alla fine il Giappone limitò le sue esportazioni di semiconduttori, ma così facendo avvantaggiò i produttori di Taiwan e della Corea del Sud, che con la loro ascesa misero comunque in crisi i produttori americani e con essi anche quelli giapponesi.

Proprio esperienze come queste hanno portato nel secolo scorso alla ricerca di un modo migliore per governare il commercio globale, ricerca culminata con la nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio nel 1995 e della sua opposizione al commercio gestito. Le nuove buone idee di oggi sembrano tanto le vecchie cattive idee di ieri.

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