LaChapelle in mostra al Mudec. Per raccontare che un altro mondo è possibile
Da fotografo delle star a cantore dei pericoli e delle fragilità della Terra. L'artista americano torna a Milano con una personale di più di 90 opere che racconta (anche) la sua fiducia nei miracoli.
di Laura Leonelli
7' di lettura
Le rane non cantano più e la notte non è più la stessa a Maui. Qualcosa tra il cielo e il mare di una delle isole più belle delle Hawaii è cambiato. Lo stravolgimento del clima è arrivato anche qui, stagione secca troppo lunga, piogge in ritardo o impetuose oltre il limite. Le rane non cantano più perché sono scomparsi gli insetti e, insieme a loro, insieme a quell'equilibrio del mondo che vola sulle ali delicatissime di una zanzara, di un coleottero, di una libellula, è scomparso anche il miracolo del paradiso terrestre. Ma è per questo che David LaChapelle, abitante stagionale di Maui dove ha costruito una casa-rifugio-fattoria biologica, crede ancora ai miracoli, perché «i miracoli – dice il grande fotografo americano, cantore e distruttore del sogno di un consumismo felice – sono la misura della nostra sensibilità, la risposta alla nostra fede, la luce che arriva se non ci abbandoniamo all'oscurità e all'indifferenza». E tale è la nostra fede nel suo genio che non mancheremo certo la splendida mostra David LaChapelle. I Believe in Miracles, curata da Denis Curti e Reiner Opoku, e aperta al Mudec di Milano dal 22 aprile, Giornata mondiale della Terra, fino all'11 settembre. Le date parlano di terrorismo, quello che ci vede protagonisti più o meno responsabili degli assalti al pianeta e quello che dichiara apertamente l'odio. Eppure, e 90 immagini in mostra, meravigliose e molte inedite, ci consolano e ci illuminano.
Carriera miracolosa, quella di David LaChapelle, perché intrisa di salvezza, o meglio di ricerca di salvezza, visto che la sua famiglia ha trovato rifugio in quell'America che, in epoche diverse, è stata terra di approdo da un'Europa in guerra. I primi ad arrivare furono gli antenati del padre di David, ugonotti in fuga dalla Francia cattolica del 1600, sbarcati in Canada e da lì discesi negli Stati Uniti. La nonna e la madre del futuro artista invece avevano lasciato la Lituania nei primi anni Sessanta, traversata atlantica, Ellis Island, e tre giorni dopo Helga, ventenne, incontra Philip LaChapelle, innamorati, sposati, tre figli, Sonja, Philip e David, che nasce l'11 marzo1963. Se vogliamo cercare un altro miracolo, quello è Helga, la sua energia, operaia, cameriera, infermiera, lei «che si occupava della nostra famiglia, cucinava, e in quegli anni di cibo- spazzatura era già attenta alla nostra alimentazione», racconta il figlio, che ovviamente è vegetariano. La prima foto che David scatta è a sua madre in bikini bianco e oro, durante una vacanza a Porto Rico, lei bella come Ursula Andress, lui che a sette anni segue le sue indicazioni alla lettera, raggiunge il posacenere sulla moquette che indica il punto esatto da cui inquadrare, scatta, forse per sbaglio o forse no, inserisce la quinta di una tenda rossa, e nel trionfo dei colori, nella giornata di sole, nella sicurezza della posa, nel sorriso, nel profilo che taglia il cielo di un azzurro sfacciato, è già un'immagine che parla al futuro.
Ma quel futuro è ancora lontano, e prima di mettere le ali, le stesse ali di carta che Helga metteva ai suoi figli nella fotografia degli auguri di Natale e che David metterà a Michael Jackson, e prima ancora di essere salutato “the hottest young photographer working today”, sulla copertina del volume ormai culto LaChapelle Land del 1996, David ha dovuto percorrere la sua personalissima via crucis, come ogni omosessuale. La corona di spine, e David la offrirà a un Leonardo DiCaprio quasi bambino in uno dei suoi primi famosi ritratti, è il bullismo dei compagni di scuola a Raleigh, nel North Carolina, dove i LaChapelle si erano trasferiti dal Connecticut. «Dai nove ai 15 anni è stato un inferno, e a un certo punto le cose andavano così male che avevo pensato di suicidarmi».
A 15 anni David lascia la scuola, fugge e l'approdo all'isola della salvezza, una seconda Ellis Island per chi è già americano, è New York, e a New York l'epicentro di ogni stravagante felicità è lo Studio 54. David, teenager di assoluta bellezza, fa il busboy, ogni sera una festa, incontri, euforia sessuale, sperimentazioni artificiali di vario tipo, fino a quando il padre, «il primo nella nostra famiglia a essersi laureato», lo viene a riprendere e lo iscrive alla North Carolina School of the Arts, «perché almeno il diploma dovevo prenderlo». Infiniti disegni con una facilità di mano prodigiosa e poi un giorno l'incontro “ufficiale” con la macchina fotografica: «Ho cominciato a ritrarre i miei compagni di scuola, un attimo dopo erano nudi nella mia camera, in posa come nei quadri del Rinascimento. Con quelle foto sono tornato a New York, prima mostra alla 303 Gallery. Poi tutto cambia, incontro Andy».
Andy, cioè Warhol, entra nella vita di LaChapelle durante un concerto degli Psychedelic Furs al Ritz. «You should be a model», gli dice il padre della Pop Art, «but I want to be a photographer», ribadisce quel ragazzo di 17 anni, occhi nocciola, zigomo forte, zazzera di capelli quasi bionda. Il compromesso è un passaggio nella redazione di Interview per la visione del portfolio. «Great! disse Andy, e poi avrei scoperto che Andy diceva great! di tutto, anche dei biscotti», ricorda David. Ma quel complimento ha un valore diverso evidentemente, perché LaChapelle inizia a collaborare alla rivista e, sette anni dopo, firmerà l'ultimo ritratto di Andy Warhol, Last sitting, del 22 novembre 1986, e alle spalle del suo mentore inserisce due bibbie tra una fila di libri antichi. «Pochi lo sanno, ma Andy andava a messa tutte le domeniche. Anch'io da bambino andavo a messa, mi ci portava mio padre, che era molto religioso e aveva anche un fratello prete. A me piaceva guardare la luce che filtrava dalle finestre colorate della chiesa. Mi piaceva moltissimo anche Gesù, e la religione in quegli anni era allegra, hippy, e c'erano canzoni fantastiche come Jesus is just alright with me dei The Doobie Brothers, o il capolavoro Let it be dei Beatles, “when I find myself in times of trouble, Mother Mary comes to me” (durante l'intervista David LaChapelle ha cantato queste canzoni e benissimo, ndr). Anche Keith Haring era un adepto del Jesus Movement, aveva la barba, portava i sandali e parlava di perdono, amore e natura. Solo negli anni Ottanta i fondamentalisti cristiani, repubblicani ovvio, hanno ripreso il sopravvento e hanno stravolto l'immagine di Cristo. Che religione è quella che dice che l'Aids è la giusta punizione per gli omosessuali?».
David ha 21 anni quando vede morire il suo compagno, che ne ha 24, «eppure fino a 30 anni non ho avuto il coraggio di fare il test, ormai ero pronto a morire e andava bene così. Invece un giorno mi decido, faccio il test, risultato negativo, non ci credo, chiedo di rifarlo, NEG, di nuovo». Un miracolo, continua a ripetere LaChapelle, «yes, I believe in miracles». Ma, a conti fatti, il vero miracolo avviene dopo. E non solo perché l'opera di LaChapelle è intrisa di iconografia cristiana e pittura rinascimentale, come dimostra il primo portfolio importante, Angels Saints and Martyrs già del 1984, e ancora oggi David si commuove al ricordo della sua visita alla Cappella Sistina nel 1985.
Il miracolo non è neppure il successo strepitoso, visto che, per oltre 20 anni, David ha fotografato moda e celebrità nel suo stile surreale, coloratissimo, provocante, ha firmato copertine per Details, The New York Times, Rolling Stone, Vanity Fair, Vogue Italia, Vogue Francia, ha realizzato una campagna epocale come quella di Diesel, prima volta di un bacio gay, e ha suscitato il plauso di Helmut Newton, uomo difficilissimo, che vedeva nel giovane collega l'unico capace di immaginare il nudo in modo diverso perché divertente. No, il vero miracolo è stato la noia che tutto questo aveva provocato, la saturazione, la domanda epocale e apocalittica: “E adesso?”.
Adesso era il 2006, quando David sceglie di ritirarsi a Maui. Non fotografa, ma alleva capre. Il primo telefono è a venti minuti di macchina da casa. Un giorno, però, una chiamata arriva, ed è di un gallerista tedesco che invita il fotografo a diventare artista. Non una pubblicità, ma una riflessione sulla catastrofe che ha portato la cultura della pubblicità e del consumo. Deluge, ispirato direttamente al Giudizio Universale di Michelangelo, nasce appunto nel 2006, e l'anno dopo è la volta di After the Deluge: Statue.
Nel 2012 vede la luce uno dei capitoli più sorprendenti, geniale nell'idea e virtuosistico nella realizzazione, ed è la serie Gas, modellini di stazioni di benzina immersi nella giungla hawaiana, «perché fare rifornimento ormai accomuna tutti, in ogni parte del mondo, e i distributori sono diventati le nuove chiese», precisa David. Quattro anni dopo appare la magnifica Land Scape, ancora riproduzioni in scala, rifiuti di plastica, tubi, barattoli, bottiglie che diventano raffinerie di petrolio, ambientate questa volta nel deserto alle porte di Los Angeles. Accelerando arrivano la tragedia di Spree, nuovo Titanic che non affonda perché gli oceani si sono prosciugati, e il Vangelo di Annunciation, Maria afroamericana e l'arcangelo che ha un mantello di cellophane mosso dal vento. Il vento soffia sollevando ancora plastiche e cartacce anche nella scenografia di Revelations.
Ci salverà l'amore? Guardando il bacio appassionato di una coppia âgé, o la grazia di Our Lady of the Flowers, o persino le lacrime di Mary Magdalene, alias Kim Kardashian, potremmo quasi crederci. Il miracolo dipende da noi. Lo diceva anche la nonna di David, che al nipote ripeteva be brave, sii coraggioso. LaChapelle si è tatuato queste parole sul braccio destro. E chissà se a questo punto anche le rane degli stagni di Maui non siano più ottimiste sul loro e sul nostro futuro.
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