Laureati: l’8% sceglie di lavorare all’estero Fuga record dal Nord, che recupera da Sud
Tra le ragioni delle partenze spiccano le opportunità migliori fuori e le prospettive di carriera ma incide anche la variabile retributiva: a un anno dal titolo di studio, il guadagno è il 41,8% in più di quanto sarebbe in Italia
di Eugenio Bruno e Claudio Tucci
5' di lettura
L’Italia si conferma un Paese esportatore. Non solo di beni e servizi ma anche di capitale umano. A ricordarlo di recente è stato l’Istat che, nell’ultimo rapporto sulle migrazioni, ha quantificato in un milione circa i nostri connazionali espatriati tra il 2012 e il 2021. Un quarto dei quali aveva una laurea. Se incrociassimo le uscite annuali censite dall’Istituto di statistica con i laureati registrati dal ministero dell’Università scopriremmo di veder partire ogni anno il 5-8% dei nostri giovani altamente formati. Ed è un fenomeno che neanche il Covid-19 è riuscito a invertire. Se è vero che durante la pandemia le partenze sono diminuite e i rimpatri sono aumentati, è altrettanto vero che, nella fascia d’età 25-34 anni, il saldo migratorio delle persone con un titolo d’istruzione superiore in tasca, per noi, è stato negativo per circa 79mila unità.
Fattore di complessità
C’è un secondo fattore di complessità, stavolta interno, da tenere a mente. E cioè che, mentre il Nord riesce a compensare le uscite con l’attrazione di giovani provenienti dal Mezzogiorno, il Sud si ferma alla perdita secca di talenti. Una doppia onda che mette alla prova la tenuta dell’intero Paese, specialmente quando la fuoriuscita riguarda professioni a elevato valore aggiunto: medici, ingegneri, specialisti dell’Ict (su cui si vedano gli altri articoli in pagina).
Se ai classici due indizi ne aggiungiamo un terzo - e cioè che l’abbandono comincia già durante gli studi (come testimonia la recente fotografia dell’Unesco sulla mobilità degli studenti in entrata e in uscita) e difficilmente si ferma - abbiamo la prova che la fuga di cervelli è ancora in atto. Un trend da invertire quanto prima, se si vuole dare alla seconda potenza manifatturiera d’Europa una chance di restare tale anche nel medio periodo. Specie se, come raccontiamo nella pagina accanto, i numeri reali della questione sono ancora più elevati di quelli ufficiali.
Il saldo negativo migratorio
Dopo aver enunciato i singoli termini del problema proviamo a svilupparne uno per volta. Cominciando dalla partenza di laureati che non si è fermata neanche durante l’emergenza sanitaria e soffermandoci, come fa lo stesso Istituto di statistica, sul sottogruppo di 25-34 anni. Perché è proprio in quella fascia d’età che stiamo messi peggio visto che eravamo e restiamo penultimi nell’Unione europea dopo la Romania. Ebbene, nonostante l’emigrazione giovanile sia diminuita del 21% nell’ultimo anno censito (2021 su 2020) e sia calato della stessa misura anche il numero dei laureati espatriati nella medesima fascia di età, non si è ridotta invece la quota dei laureati sul totale dei giovani espatriati che è rimasta stabile (dal 45,6% del 2020 al 45,7% del 2021). Con un saldo migratorio a sua volta in discesa, ma ancora fermo a 7mila unità nel 2021. Se dal particolare risaliamo al generale, torniamo ai 248mila laureati esportati nell’intero periodo 2012-2021 e li confrontiamo anno su anno con il totale dei laureati (stavolta di fonte Mur), scopriamo che il loro peso percentuale sul totale fatica a ridursi. Nel 2012 è come se fosse partito il 5% di tutti i laureati, poi su fino all’8,9% del 2018 e di nuovo giù al 6,7% del 2021. Quasi due punti in più, quindi, di dieci anni fa.
Le ragioni per partire
I numeri di Istat e Mur non entrano sulle ragioni della partenza. Un aiuto in tal senso arriva dal rapporto di AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati. L’edizione 2022, che ha quantificato al 3,2% dei laureati di secondo livello quelli che lavorano fuori dai confini nazionali, individua «nelle migliori opportunità offerte all’estero, soprattutto in termini di retribuzioni e prospettive di carriera» gli obiettivi per espatriare. Uno dei motivi, secondo l’indagine, va ricercato in un minore utilizzo del lavoro autonomo che, a un anno dalla laurea, riguarda il 4,6% sui laureati emigrati (e il 13% di quelli rimasti); al tempo stesso risultano più diffusi i contratti a tempo indeterminato (51,8%, +27,6% rispetto al dato interno). Ma è inutile girarci intorno, anche la variabile retributiva ha il suo peso. Complessivamente, i laureati di secondo livello trasferitisi all’estero percepiscono, a un anno dal titolo, 1.963 euro mensili netti, +41,8% rispetto ai 1.384 euro che incasserebbero in Italia. Più passa il tempo più la forbice si allarga tant’è che, a cinque anni dalla laurea, fuori vengono incassati in media 2.352 euro (+47,1% rispetto ai 1.599 euro medi italiani).
La doppia onda
La questione come detto ha una ricaduta anche all’interno dei nostri territori, acuendo quel divario Nord-Sud che ci accompagna dai tempi dell’unità d’Italia. Sempre l’Istat ci fa notare come la “seconda onda” dell’emigrazione di talenti impoverisca di fatto solo il Mezzogiorno che non è in grado di invertire il bilancio negativo di perdita di capitale umano qualificato. Negli ultimi dieci anni, infatti, il gap complessivo di laureati del Nord a favore dell’estero ammonta a circa 39mila unità, quella del Centro è di circa 13mila, mentre quella del Sud è di circa 28mila unità. Grazie però ai movimenti migratori provenienti dal Mezzogiorno la situazione cambia profondamente. Il Nord guadagna oltre 116mila giovani risorse provenienti dal Sud e dalle Isole, il Centro quasi 13mila. Il risultato è che il beneficio complessivo per le regioni settentrionali è pari a circa 77mila unità. Il Centro recupera e sostanzialmente limita la perdita a circa 265 unità. Il Mezzogiorno, invece, ne esce soccombente: le uscite dal Sud verso l’estero e verso le altre regioni d’Italia determinano una perdita complessiva di poco meno di 157mila giovani residenti laureati. Come a dire che i talenti del Sud finiscono per costituire un bacino di capitale umano per le aree maggiormente produttive del settentrione e del Centro del Paese, oltre che per i Paesi stranieri. E senza interventi si rischia, in prospettiva, la «desertificazione universitaria del Sud», come evidenzia, senza troppi giri di parole, il professor Gaetano Vecchione, economista all’università di Napoli e consigliere scientifico Svimez: «Nel 2041 il Mezzogiorno perderà il 27% di iscritti, il Centro-Nord circa il 20%. Non solo - ha aggiunto Vecchione -. Tra denatalità, bassi tassi di passaggio tra scuola e università e migrazioni nel 2021 il divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno ha segnato una differenza di 80mila immatricolati. Negli ultimi 20 anni circa 1,2 milioni di giovani ha lasciato il Mezzogiorno, 1 su 4 è laureato. Nel solo 2020 sono stati 67mila e la quota di laureati è salita al 40%».
La fuga comincia presto
Finora ci siamo soffermati sui laureati. In realtà, un ulteriore elemento di complessità deriva dal fatto che lo spostamento, sia verso l’estero che lungo la direttrice Sud-Nord, comincia già all’università. E qui ci viene in soccorso l’Unesco. L’ultima rilevazione sulla mobilità studentesca in uscita e in entrata vede l’Italia assestarsi, rispettivamente, al 4,2% e al 2,9 per cento. Confermando la nostra natura (peraltro precoce) di esportatori di capitale umano. Senza scomodare gli Stati Uniti e il loro 0,6% “outbound” contro il 5,1% “inbound”, tutti i nostri competitor presentano lo scenario opposto: il Regno Unito ha l’1,5% in uscita e il 20,1% in entrata; la Germania il 3,8% e l’11,2%; la Francia il 4% e il 9,2%; la Spagna il 2,2% e il 3,8%; il Portogallo il 6% e l’11,6% e così via. A dimostrazione del fatto che le eventuali contromisure andrebbero prese già ai tempi dell’università. A maggior ragione se dietro l’angolo c’è l’impatto nefasto atteso dall’inverno demografico che ha già colpito le nostre scuole (che perdono 130mila alunni da un anno all’altro, -1,4 milioni di studenti nei prossimi 10) e che presto (nel 2040) colpirà anche gli atenei. Mai come in questo campo, è il caso di dirlo, il domani inizia adesso.
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