Il paradosso dei lavori di cura delle persone: alto valore, bassa paga
Se il lavoro è certamente cura, non sempre la cura è considerata lavoro
di Vittorio Pelligra
8' di lettura
Il lavoro è prima di tutto cura, cura di sé, cura degli altri, cura del Mondo. Con il nostro lavoro concorriamo al processo di umanizzazione dell'ambiente che ci circonda e allo stesso tempo umanizziamo il nostro “ambiente interiore”, noi stessi. All'interno del progetto delle nostre comunità, lavorando, restituiamo a coloro che condividono il nostro stesso destino ciò che gli dobbiamo e riceviamo da loro, in una dinamica di reciprocità che può generare, contemporaneamente, benessere e senso ma, nello stesso tempo, costruiamo anche la nostra identità fatta di finalità, autostima e rispecchiamento nello sguardo degli altri.
Eppure, è necessario riconoscere che, se il lavoro è certamente cura, non sempre la cura è considerata lavoro. C'è una irriflessività in questa relazione che colpisce e insospettisce come il sintomo di un disordine patologico. Ciò che pristinamente rappresenta l'essenza stessa del lavoro, sembra faticare, anche solo in linea di principio, ad accedere alla dignità, allo status e alla riconoscenza sociale dovuti ad ogni lavoro propriamente detto.
Essere “bisognosi”
Ci sono certamente ragioni storiche alla base di tale disconoscimento, legate al concetto stesso di bisogno di cura, di dipendenza e di vulnerabilità. Chiedere, così come dare cura, umilia e degrada. In questo modo non solo i “bisognosi”, ma tutte le figure che con la vulnerabilità entrano in contatto, quei soggetti che nella storia sono stati associati al lavoro di cura – gli schiavi, i servi, le donne – sono fatti oggetto di stigma e declassamento.
Il ruolo della donna
Il ruolo tradizionale della donna, “naturale” prestatrice di cura, ruolo che, in quanto tacitamente accettato o imposto, viene considerato “scontato”, sia nel senso di “dato per acquisito” e “incontestabile”, sia in quello di “deprezzato”, “ridotto nel suo varo valore”, “non riconosciuto a sufficienza”, appunto. Ma la questione dello svilimento del lavoro di cura non ha origini solamente di ordine storico; ci sono questioni culturali, teoriche e ideologiche che hanno contribuito a rafforzare questa visione, anche in ambiti insospettabili, come quelli delle teorie filosofiche della giustizia.
Come rispondiamo alle domande che derivano dal bisogno di cura di persone che saranno dipendenti per tutto l'arco della loro vita? Come trattiamo le dipendenze temporanee, che tutti noi, considerati generalmente autonomi e autosufficienti, abbiamo vissuto da bambini e vivremo – speriamo – da anziani? E come consideriamo coloro che sono chiamati per vocazione umana e professionale o sono costretti da ruoli, norme o circostanze, a dedicare gran parte della loro vita alla cura di altri? Sono domande alle quali occorre sempre più urgentemente, vista anche la dinamica demografica delle nostre società, dare delle risposte che, al momento, mancano.
Iniziamo dichiarando chiaramente che la convinzione che la vulnerabilità e la dipendenza siano una faccenda che importa ad sfortunata minoranza, è una convinzione falsa. L'esperienza della vulnerabilità, al contrario, è pervasiva. Ognuno di noi è vulnerabile, in varia misura, durante tutto il corso della sua vita, ma in determinati periodi tale vulnerabilità è addirittura totale. Si pensi alle fasi della prima infanzia, o alla vecchiaia o a periodi di malattia. In questi momenti si è così vulnerabili che non si potrebbe sopravvivere se qualcun altro non si prendesse cura di noi.
L’onere della cura
Spesso questa necessità è così totalizzante che chi si prende cura di altri rischia di non potersi prendere sufficiente cura di sé. Si pensi ad una mamma con il suo neonato o un figlio con un genitore anziano non autosufficiente, e a quanto possano essere esclusivi tali rapporti. Il termine esclusivo, qui, sta ad indicare quanto facilmente si può correre il rischio che il soggetto su cui ricade l'onere della cura si trovi escluso dalla rete dei rapporti sociali significativi o, anche, che gli venga preclusa la partecipazione al mercato del lavoro.
Ognuno di noi, dunque, ha fatto, sta facendo o farà, l'esperienza della vulnerabilità e della conseguente dipendenza, perché tale esperienza non rappresenta un'eventualità rara ed eccezionale, quanto piuttosto, come sostiene la filosofa Eva Kittay, una “implicazione della nostra stessa natura biologica”. Per questo nessuna società potrebbe vivere per più di una generazione se i suoi membri non rispondessero in modo adeguato a tale domanda di cura.
La rimozione della vulnerabilità
Su questo punto si inserisce uno strano paradosso dai riflessi quasi freudiani. Con un notevole esercizio di rimozione culturale, la vulnerabilità, pur essendo, come abbiamo visto, una caratteristica definitoria dell'esperienza esistenziale di ciascuno di noi, è stata rimossa dalle categorie fondative del nostro vivere comune, come un residuo mnestico pericoloso.
Esercizio di rimozione diagnosticato chiaramente da Alasdair MacIntyre, il quale scrive: “La vulnerabilità (...) e la dipendenza nelle loro correlate manifestazioni, paiono talmente evidenti da far pensare che non sia possibile dare una spiegazione credibile della condizione umana senza riconoscere la centralità del loro ruolo. Eppure, la storia della filosofia occidentale offre un quadro sostanzialmente diverso. (...) Perché – continua MacIntyre – il malato, il sofferente o il disabile trovano posto nelle pagine di un libro di filosofia morale solo e sempre in veste di un possibile oggetto di benevolenza da parte dei veri agenti morali” (Dependent Rational Animals: Why Human Beings Need the Virtues, Open Court, Chicago, 1999).
Sulla stessa linea si muove Martha Nussbaum quando, chiedendosi retoricamente: “Cosa hanno da dirci le moderne teorie contrattualiste della giustizia circa [i problemi della vulnerabilità e dipendenza]”, conclude con un “praticamente niente” (Capabilities and Disabilities: Justice for Mentally Disabled Citizens, University of Chicago, 2003).
Una rimozione che genera, come aveva giustamente intuito Freud, uno stato di nevrosi, in questo caso, collettiva.
Il “sé-relazione” nell’apertura all’altro
Non riusciremo a comprendere appieno e a valorizzare come dovremmo il lavoro di cura se non riusciremo a sostituire alla premessa antropologica dell'agente razionale, autonomo e indipendente, quella fondata su una visione descrittivamente più realistica di “persona”, soggetto, cioè, vulnerabile, dipendente e in costante relazione di reciproca interdipendenza. Un cambiamento radicale che sposta il “sé-individuo” dal centro del racconto della modernità e vi pone il “sé-relazione”, che diventa persona nell'apertura all'altro.
Questa operazione, del resto, troverebbe nobile radice nella tradizione dell'umanesimo civile. Leonardo Bruni, quando a metà del ‘400, scrive l'introduzione alla Politica di Aristotele, descrive l'essere umano come “debole animale, di per sé insufficiente [che] raggiunge la sua perfezione solo nella civile società”. Siamo umani, in questo senso, perché, innanzitutto, deboli, e per questo insufficienti a noi stessi. Da ciò consegue che possiamo trovare la piena realizzazione solo all'interno di un contesto sociale, solo nell'ambito della vita civile. Lo scrive nella prefazione al libro della Politica, perché questo incontro di insufficienze e l'emergenza di un ordine sociale fondato sulla mutua assistenza rappresenta l'essenza stessa, nella tradizione dell'umanesimo, della vita civile.
Da individui autonomi a persone dipendenti, quindi, perché, come affermava Luigi Pareyson in Ontologia della libertà: “L'uomo è una relazione, non nel senso che egli è in relazione con, oppure, intrattiene relazioni con: l'uomo è una relazione, più specificamente una relazione con l'essere (ontologico), con l'altro” (Einaudi, 1995).
Insiste sullo stesso punto anche Giuseppe Maria Zanghì, quando afferma che “l'uomo è chiamato a maturare come persona-in-comunione; (...) è questa comunione realizzata che rivela a sé stessa la persona (...). L'individuo è sé in sé stesso, la persona è sé nell'altro. (...) L'individuo da sé non può farsi persona”. È il suo essere in relazione, la sua apertura ontologica agli altri, dunque, a rendere la persona “la maturazione dell'individuo”, sempre per usare le parole di Zanghì. Se quindi le persone si realizzano e fioriscono pienamente solo all'interno di una rete di relazioni fatte anche di reciproca assistenza e cura, com'è possibile che il lavoro di assistenza e di cura sia stato svilito, disconosciuto e, infine, rimosso?
Il coinvolgimento emotivo
Una delle ragioni ha a che fare con il fatto che il lavoro di cura rende chi lo esercita, a sua volta, vulnerabile. Spesso economicamente, perché, per esempio, in ambito familiare, una donna sulla quale ricade gran parte del lavoro di cura dei figli o dei genitori anziani, vede fortemente limitata la sua possibilità di partecipazione al mercato del lavoro. Ma la cura rende vulnerabili anche in un altro senso, forse ancora più profondo, perché essa si sviluppa in una relazione empatica nella quale il coinvolgimento emotivo è parte integrante.
La cura è un “bene relazionale” la cui qualità dipende dalla qualità della relazione e quindi dall'identità dei soggetti coinvolti e dalla loro storia passata. Questo limita in maniera rilevante la sostituibilità della prestazione e rende, spesso, i caregiver, “prigionieri dell'amore”. Mentre il mercato funziona bene per beni omogeni ad elevato livello di sostituibilità, con questi “beni relazionali”, difficilmente mercificabili, il suo funzionamento si inceppa e ciò rende complicato il processo di attribuzione del valore a questa tipologia di lavoro, la cui essenza non si riduce alla prestazione di un servizio, proprio perché incorpora la qualità della relazione interumana.
Una dimensione difficile da quantificare
C'è anche un terzo elemento del lavoro di cura che sfugge all'ermeneutica mercantile e cioè il fatto che la cura ha una dimensione tipica dei beni pubblici, una dimensione difficile da riconoscere, da misurare e quindi da remunerare. Questi elementi stanno, tra gli altri, alla base di quelle forme di segregazione che vedono una distribuzione diseguale dell'onere della cura tra uomini e donne, ma stanno anche alla radice di quella svalutazione e deprezzamento di tale lavoro che, proprio a causa di status-ruoli ancora molto diffusi, tendono a penalizzare maggiormente il lavoro femminile.
Ma se il “costo di produzione” del servizio di cura è così alto e la sua remunerazione così bassa, non dovremmo forse aspettarci una riduzione della sua offerta? Una riduzione della disponibilità, soprattutto da parte delle donne ad essere esclusive e, al tempo stesso, disconosciute, responsabili del lavoro di cura? E infatti, questo è proprio ciò che osserviamo: la crisi demografica è una conseguenza di questo mancato riconoscimento, così come la crescente instabilità dei nuclei familiari e l'aumento delle spese private per l'acquisto di servizi assistenziali. Sono tutti sintomi, alcuni tra i molti, dello stesso fenomeno.
Il paradosso del salario minimo
C'è poi un altro tema che questo discorso evoca, ed è un tema connesso all'efficienza. Il lavoro di cura, infatti, come ogni lavoro vocazionale, sia in ambito familiare che nel mercato formale, è fortemente legato alla natura delle motivazioni individuali. Coloro che scelgono di impegnarsi in questo genere di attività lo fanno spinti, in genere, da forti motivazioni intrinseche. Non si diventa infermieri o assistenti sociali per arricchirsi e non si sceglie di insegnare alle scuole elementari perché mossi da ambizioni di carriera.
Questo fatto è però alla base di un pericoloso paradosso che occorre esplicitare. La natura vocazionale del lavoro e le motivazioni intrinseche tendono ad abbassare quello che gli economisti chiamano il “salario di riserva”, la remunerazione minima, cioè, alla quale un lavoratore è teoricamente disposto a lavorare. Questo riduce il potere di mercato di queste categorie di lavoratori e contribuisce a deprimerne i salari. Il mancato riconoscimento economico determina, poi, in un quadro dominato dalla “retorica meritocratica”, una svalutazione anche sociale del ruolo e questo, in ultimo, esercita un effetto di spiazzamento rispetto alle motivazioni intrinseche.
Sappiamo che da tali motivazioni dipende direttamente la produttività del lavoratore e la qualità del suo lavoro e se queste vengono erose, ne risentirà la qualità della prestazione e quindi l'efficienza complessiva del sistema. Ci è voluta una pandemia globale per scoprire l'importanza del ruolo degli infermieri e qualche mese di didattica a distanza per capire quanto insegnanti motivati siano fondamentali per il futuro dei nostri figli. Abbiamo solo iniziato ad aprire gli occhi. Dovremmo proseguire per questa strada e continuiamo a scoprire quanto la nostra vulnerabilità e dipendenza reciproca possa realmente costituire il collante delle nostre comunità.
Una narrazione “diversa”
Ce lo ha spiegato molto bene Carol Gilligan, psicologa dell'Università di Harvard, nel suo importante In a Different Voice (Harvard University Press, 1982) dove viene data voce, appunto, ad un racconto nuovo, narrato in prospettiva femminile, della crescita morale individuale e sociale. “Vedere se stessi inseriti in una rete di rapporti interumani significativi e comprendere come sia tale rete il luogo della nostra fioritura – rappresenta, secondo la GIlligan – il punto d'arrivo di un lungo processo di maturazione morale che ci porta, da una situazione nella quale l'unico interesse è prendersi cura di sé ad un punto in cui comprendiamo che la relazione con l'altro in necessità è un rapporto tra soggetti integrali e non tra uno che si sacrifica e l'altro che beneficia del sacrificio”.
Riconoscerci “soggetti integrali” indipendentemente o, forse, proprio a causa della nostra dipendenza, ci aiuterebbe a costruire comunità più accoglienti e a dare al lavoro di cura un necessario riconoscimento sociale almeno pari al suo irrinunciabile ruolo e alla sua intrinseca e innegabile dignità.
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