Lavoro e famiglia: quanto pesa la “conciliazione” sulle donne
Il 40% delle giovani donne di età compresa fra i 35 e i 44 anni non lavora, contro il 15% degli uomini, così come la metà delle donne con almeno un figlio di meno di sei anni fra i 25 e i 49 anni, percentuale che sale al 65% delle ragazze del meridione. Lo racconta il rapporto BES di Istat del 2022. Dopo la nascita del primo figlio quasi una donna su cinque tra i 18 e i 49 anni che aveva una qualche occupazione ha smesso di lavorare. Ha continuato a farlo, anche solo in part-time, il 43,6% delle madri, con percentuali molto basse al sud: appena il 29%. Il 31% delle donne casalinghe dopo la maternità lo era anche prima.
di Cristina Da Rold
6' di lettura
Il 40% delle giovani donne di età compresa fra i 35 e i 44 anni non lavora, contro il 15% degli uomini, così come la metà delle donne con almeno un figlio di meno di sei anni fra i 25 e i 49 anni, percentuale che sale al 65% delle ragazze del meridione. Lo racconta il rapporto BES di Istat del 2022. Dopo la nascita del primo figlio quasi una donna su cinque tra i 18 e i 49 anni che aveva una qualche occupazione ha smesso di lavorare. Ha continuato a farlo, anche solo in part-time, il 43,6% delle madri, con percentuali molto basse al sud: appena il 29%. Il 31% delle donne casalinghe dopo la maternità lo era anche prima.
Nel complesso il 42% delle donne di età compresa fra i 30 e i 69 anni non ha un impiego retribuito regolare: il 58% di quelle residenti al Sud, il 34% di chi abita al nord e il 37% delle donne di questa età che risiedono al centro.
Si può non lavorare ma cercare lavoro, oppure non cercarlo affatto. Si parla nel primo caso di disoccupazione e nel secondo di inattività. Secondo quanto emerge da un rapporto di Randstad del 2021, se consideriamo il tasso di inattività, che comprende anche le studentesse, 3 donne su 10 in Italia risultano inattive, cioè si dedicano unicamente a casa e famiglia. Istat definisce casalinga o casalingo una persona che non ha svolto neanche un’ora di lavoro nella settimana di riferimento e che non cerca lavoro. Non si nega che un inattivo o un disoccupato abbia qualche saltuario lavoro in nero, ma questo significa non avere alcun diritto a malattia, maternità, indennità, né tantomeno garanzia di disoccupazione.
Il peso (consapevole o meno) del lavoro di cura è una delle ragioni che blocca ancora le donne nell’essere economicamente autonome. Il “Rapporto Plus 2022. Comprendere la complessità del lavoro” di Inapp-Plus, pubblicato nel 2023 ha raccolto dati da 45 mila persone di età compresa fra i 18 e i 74 anni, dai quali emerso che lamotivazione principale per cui queste donne hanno smesso di lavorare è proprio la difficoltà di conciliazione tra lavoro e cura, indicata dalla metà delle rispondenti. Il 29% ha risposto di aver smesso di lavorare per mancato rinnovo del contratto o licenziamento e il 19% per non meglio precisate valutazioni di opportunità e convenienza economica. Le donne che hanno bambini di età inferiore ai 6 anni hanno il tasso di occupazione più basso (53,3%) rispetto ai padri (89%), ai lavoratori che non sono padri (77%) e anche alle donne che non sono madri di bambini di età compresa tra 0 e 5 anni, che comunque lavorano relativamente poco: solo il 60% di loro ha un lavoro.
L’ultimo rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha cercato di quantificare quanto tempo dedicano alla cura di figli e parenti anziani o fragili le donne e gli uomini nei vari paesi. In Italia, le donne svolgerebbero 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno mentre gli uomini un’ora e 48 minuti. In altre parole le donne si farebbero carico del 74% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura.
Viene da chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina: le donne hanno sulle spalle tre quarti del lavoro di cura perché lavorano di meno oppure non lavorano perché hanno queste incombenze principalmente sulle loro spalle?
Una risposta parte da qui: il 21% delle italiane in età lavorativa, quindi una ragazza su cinque, dichiara di non essere disponibile o di non ricercare lavoro attivamente a causa del lavoro non retribuito di assistenza e cura. La stessa percentuale si rileva per le donne svizzere, mentre in Francia solo il 10 per cento delle donne dichiara di essere fuori della forza lavoro a causa di lavori di assistenza e cura non retribuito.
C’è poi il tema del part-time, che è un diritto normato per chi ne ha bisogno e che in molti casi assicura alla persona di poter continuare a lavorare invece di dover decidere di rimanere a casa proprio per la difficoltà di gestire il lavoro di cura.
È corretto includere nelle donne occupate anche chi lavora part-time, ma ricordandoci che anche difficilmente una donna che lavora a tempo parziale riesce a mantenere sé e la propria famiglia, a meno di non essere una manager o una dirigente. I dati Eurostat mostrano che il 28% delle donne che lavorano di età compresa tra 15 e 64 anni ha un contratto part-time, contro l’8% degli uomini. Si tratta per la maggior parte di occupazioni poco pagate: fa part-time il 48% delle donne con occupazioni assimilabili a quelle operaie. Il 10% delle manager lavora part-time contro il 3% degli uomini. Secondo recenti rilevazioni Istat parliamo di 2,8 milioni di donne su 8,6 milioni di occupate tra i 30 e i 69 anni: il 32% di loro. Il 16% di queste ha risposto che lo ha “scelto” per prendersi cura dei figli o di persone non autosufficienti.
Il part time involontario è un fenomeno tipico del mercato del lavoro italiano, scive Istat in una recente nota su Lavoro e conciliazione dei tempi di vita del 2022. Si intende con questa espressione la situazione in cui il lavoratore o la lavoratrice sono costretti a ridurre le ore di lavoro e quindi lo stipendio su esigenze dell’azienda oppure perché non hanno trovato un’occupazione a tempo pieno che permettesse loro di conciliare lavoro e vita privata. Il part-time è invece volontario quando viene richiesto dalla persona al datore di lavoro.
Le donne che lavorano sono comunque più povere, anche le libere professioniste. Tanto che – ad esempio - il reddito di cittadinanza nel 2020 è stato richiesto dal 44,7% di uomini e dal 55,3% di donne e nel 2021 dal 42,5% di uomini e dal 57,5% di donne. Secondo l’ultimo rapporto di Adepp (che raccoglie le casse di previdenza private), nel 2020 la differenza di reddito fra professionisti e professioniste è stata pari a circa il 55%, che significa che fatto 100 il reddito degli uomini, quello delle donne è stato di 45. Lo stesso vale per chi non è iscritto a un ordine professionale e quindi a INPS gestione separata: si ha un reddito medio di 15.688 euro per le donne e e 28.398 per gli uomini.
E i servizi di supporto alla cura? Chiaramente dai dati emerge che sono le famiglie meno abbienti, dove presumibilmente la donna non lavora, a non iscrivere i bambini al nido. Solo il 19,3% dei bambini appartenenti alle famiglie con redditi più bassi (primo quinto di reddito) frequenta il nido, quota che cresce al 22,5% per le famiglie che si collocano nel secondo quinto, si attesta intorno al 25% per le famiglie con redditi medio-alti (terzo e quarto quinto), fino al 34,3% per le famiglie con i redditi più elevati.
In ogni caso mancano comunque i posti per tutti. Nel 2019 il 26,9% dei bambini avrebbe potuto iscriversi al nido trovando un posto. Siamo ben al di sotto del parametro UE del 33% fissato nel 2002 dal Consiglio europeo di Barcellona come obiettivo che andava raggiunto entro il 2010, per incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Nel meridione meno di un bambino su sei con meno di 3 anni potrebbe avere accesso all’asilo nido, al nord uno su tre. Solo 30 sulle 110 province italiane hanno una copertura media dei posti rispetto ai bambini tra 0 e 2 anni uguale o superiore al 33% e solo 11 hanno una copertura superiore al 40% di copertura. Nessuna al Sud.
L’ILO stima che 22 milioni di persone che lavorano otto ore al giorno senza remunerazione in attività di assistenza e cura non retribuite e la situazione è destinata a diventare più critica. Nel 2030, l’Italia sarà il quattordicesimo paese al mondo in termini di alta proporzione di dipendenza degli anziani dalle persone in età lavorativa. Il problema è serio, perché senza forti investimenti nei servizi per la cura di bambini e anziani, dal momento che il numero di questi ultimi è destinato a crescere, a fare le spese della longevità dei nostri preziosi anziani saranno prevalentemente le giovani donne. Ma al tempo stesso se una fetta di persone non lavora, e quindi non contribuisce all’erario, va da sé che la coperta sarà corta.
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