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Lavoro, perché in Italia 1 occupato su 10 è povero e 1 su 4 ha un basso salario

Secondo il rapporto presentato al ministero del Lavoro, l’11,8% dei lavoratori in italiani versa in condizioni di povertà. Le cause? Salari bassi, rapporti discontinui e carico famigliare

di Alberto Magnani

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4' di lettura

Oltre un lavoratore italiano su 10 versa in condizioni di povertà, mentre almeno un quarto degli occupati percepisce un salario basso. Con numeri pronti a crescere dopo gli anni della crisi pandemica.

È il bilancio che emerge dalla Relazione del Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia, presentata il 18 gennaio dal ministro del lavoro Andrea Orlando e l’economista Ocse Andrea Garnero. Il testo inquadra l’emergenza della cosiddetta in-work poverty: la condizione di povertà che riguarda i lavoratori, spinti sotto la linea della miseria da fattori che vanno dalla stagnazione retributiva a contratti precari.

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I dati sono attinti dall’istituto Ue Eurostat e risalgono al 2019, l’anno precedente all’esplosione del Covid e ai suoi impatti su un mercato del lavoro già traballante. Lo scenario, da allora, rischia di essersi ancora più compromesso: la pandemia, si legge nel rapporto, «ha presumibilmente esacerbato il fenomeno,esponendo a più alti rischi di disoccupazione chi aveva contratti atipici e riducendo il reddito disponibile di chi ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e alle misure emergenziali introdotte per far fronte alle conseguenze della recessione».

Oltre un lavoratore su 10 è già povero

Secondo l'indicatore adottato dalla Ue, la condizione di in-work poor scatta se un individuo si dichiara occupato per un certo numero di mesi nell’anno di riferimento (in genere 7 su 12) e vive in un nucleo familiare con un reddito equivalente disponibile inferiore alla soglia di povertà: in genere, il 60% del reddito mediano nazionale.

Con questo criterio, Eurostat rileva come l’11,8% dei lavoratori italiani versasse in condizioni di povertà nel 2019, uno scarto di oltre tre punti rispetto al 9,2% della media Ue. I dati sono ancora meno confortanti sul fronte delle retribuzioni individuali: il 25% dei lavoratori percepisce una retribuzione inferiore al 60% della mediana dei redditi, sconfinando nella categoria dei low-pay worker. Lo stagnare delle retribuzioni viene indicata come la causa fondamentale della povertà lavorativa, ma non è l’unico fattore in gioco.

Da un lato pesa la composizione del nucleo famigliare, perché un lavoratore con retribuzioni dignitose può trovarsi comunque in crisi in un contesto domestico dove rappresenta l’unica fonte di reddito (o, viceversa, un lavoratore con stipendi bassi può appoggiarsi alla rete di welfare familiare). Dall’altro la “sola” inconsistenza dei salari si somma alla difficoltà, all’impossibilità tout court, di lavorare a tempo pieno, fra il boom di contratti di part-time involontario o periodi di inattività che si intervallano fra un contratto a tempo (o atipico) e l’altro. «A trascinare verso la povertà è soprattutto la scarsa intensità lavorativa, fra formule di part time involontario e rapporti discontinui - spiega Andrea Garnero, economista Ocse - E non va dimenticato il fatto che ancora, in molte famiglie, entra un solo reddito».

L’aumento dell’instabilità del lavoro, si legge nella ricerca, è frutto «della debolezza della struttura economica italiana (e quindi la crescita di “lavoretti” a basso valore aggiunto)ma anche da cambiamenti strutturali, come un aumento del peso dei servizi. Più che nella manifattura, infatti, nei servizi i lavori possono essere spezzettati in brevi fasce orarie, in alcuni casi assegnando alcune attività a società esterne per il minimo di ore possibili».

La mancata risposta delle politiche pubbliche

Le misure dispiegate finora sembrano essere andate a vuoto, anche perché quasi sempre calibrate in soluzioni «indirette» come le misure per il Sud e l’occupazione femminile. In compenso anche una soluzione mirata all’aumento dei redditi, gli «80 euro» del governo Renzi, si è scontrato su troppi limiti: la misura, si legge nel rapporto, è basta «sul salario individuale, indipendentemente dal reddito familiare» e, in aggiunta, non è corrisposta a «chi ha un reddito talmente basso da risultare incapiente a fini fiscali. Nei fatti questa misura non è stata, dunque, molto efficace nel proteggere dal rischio della povertà lavorativa».

Bocciati pure gli sgravi fiscali sui salari pagati dalle imprese come premio di produttività, visto che vanno a vantaggio delle aziende già più «generose» nelle retribuzioni, mentre il reddito di cittadinanza ha offerto qualche spiraglio in più. Senza riuscire, comunque, a incidere davvero sulla crisi della povertà lavorativa: «Il reddito di cittadinanza ha giocato un ruolo senz'altro positivo nell'attenuare la povertà dei nuclei beneficiari - si legge nel rapporto - ma tale misura è essenzialmente una forma di reddito minimo, peraltro non sufficiente per portare le famiglie numerose al di sopra della soglia di povertà e limitata nell'affrontare un fenomeno complesso e sfaccettato come la povertà lavorativa».

Le 5 proposte contro la povertà lavorativa

La crisi, secondo gli autori, deve essere affrontata con una «molteplicità di strumenti». Il rapporto ne avanza cinque: la garanzia di un minimo salariale adeguato, da raggiungere con la sua istituzione per legge o l’estensione dei contratti collettivi; il rafforzamento della vigilanza documentale, per sorvegliare il rispetto dei vincoli minimi fissati; introduzione dei in-work benefit, le prestazioni di sostegno al reddito che ancora languono rispetto alla media europea; incentivo alla imprese a pagare salari adeguati e aumento della consapevolezza fra i lavoratori; la revisione dello stesso indicatore della in-work poverty adottato dalla Ue, ritenuto impreciso rispetto al suo stesso obiettivo fondante.

La scelta di considerare come povero da lavoro chi svolge almeno sette mesi e rientra in un certo nucleo, fa sì che l’indicatore escluda proprio «i lavoratori che sono probabilmente tra i più esposti al rischio di povertà e non permette di identificare se qualcuno è in grado di avere una vita decente con i propri guadagni». L’handicap emerge anche dal confronto con analise più comprensivi. Se si considerano solo i lavoratori che dichiarano sette mesi di impiego, il parametro adottato dalla Ue, la quota di in-work poor in Italia è passata dal 9,4% del 2006 al 12,3% del 2017. Considerando chi ha lavorato almeno un mese, la quota lievita al 10,3% nel 2006 e al 13,2% nel 2017.

Riproduzione riservata ©
  • Alberto MagnaniRedattore

    Luogo: Milano

    Lingue parlate: inglese, tedesco

    Argomenti: Lavoro, Unione europea, Africa

    Premi: Premio "Alimentiamo il nostro futuro, nutriamo il mondo. Verso Expo 2015" di Agrofarma Federchimica e Fondazione Veronesi; Premio giornalistico State Street, categoria "Innovation"

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