Lavoro, perché in Italia conta più l’anagrafe della qualità
Cosa rischia un paese che ha smesso di investire sulle nuove generazioni? Se ne parla in «Gioventù sprecata», libro-inchiesta edito da Castelvecchi . Ne pubblichiamo un estratto dedicato alla questione salariale: perché in Italia l’andamento delle retribuzioni dipende (quasi) solo dall’età e non dal proprio valore aggiunto
di Alberto Magnani
4' di lettura
Essere giovani, sul lavoro, offre vantaggi o svantaggi. I vantaggi coincidono ad esempio con un maggior grado di aggiornamento sulle tecnologie, la freschezza intellettuale e la possibilità di reinventarsi con maggiore rapidità rispetto ai colleghi senior. Gli svantaggi riguardano la minore esperienza e la prospettiva di incassare retribuzioni (e trattamenti) meno gratificanti rispetto ai colleghi più attempati. In Italia la bilancia pende quasi solo sui secondi, a partire da uno dei fattori più tangibili: lo stipendio. I giovani italiani sono in media pagati di meno rispetto ai colleghi con più anni di esperienza, come se il certificato di na- scita fosse una condanna implicita ai propri obiettivi.
Di per sé non è anomalo che le nuove leve siano retribuite in maniera inferiore, visto che l'esperienza (o seniority, all'anglosassone) è un valore riconosciuto ovunque: un dipendente con anni di curriculum alle spalle può conoscere meglio gli ingranaggi dell'impresa, garantire più affidabilità, istruire nuovi assuntio, più semplicemente, aver maturato un certo numero di scatti di anzianità. Il problema è quando la retribuzione dipende solo dall'età, trasformando il cumulo di anni trascorso in azienda nell'unico criterio condivisibile per garantire un rialzo di stipendio. Anche a costo di svalutare un professionista al pieno del suo potenziale e marciare in direzione contraria a diversi Paesi europei, dove i compensi tendono a salire (o abbassarsi) a seconda della produttività.
Perché la retribuzione cresce solo con l’età
Iniziamo dalla prima questione, il divario generazionale. L'VIII report dell'Adepp, l'Associazione che raccoglie gli enti previdenziali privati, ha evidenziato il «gap retributivo» che gioca a sfavore dei professionisti all'ingresso nel mondo del lavoro. «È facile notare come vi sia una rilevante differenza di reddito tra le diverse età» si legge nell'indagine. «In particolare, vediamo che i professionisti sotto i 30 anni dichiarano circa un terzo dei loro colleghi con età compresa tra i 50 e i 60 anni. Tale differenza decresce con l'età del professionista ma resta comunque marcata fino ai 50 anni». Nel dettaglio, secondo dati riferiti al 2017, un professionista sotto i 30 anni di età guadagna in media 13.369 euro all'anno, per poi salire leggermente a 22.460 euro nella fascia 30-40 anni. La vera impennata arriva prima tra i 40 e i 50 anni (33.627 euro) e soprattutto nel periodo fra i 50 e 60 anni, quello che dovrebbe rappresentare la coda finale della carriera: 44.149 euro, valore che si stabilizza poi a 43.850 euro fra i 60 e i 70 anni.
La diagnosi è evidente. La cosiddetta curva delle retribuzioni sale esclusivamente in rapporto all'età, fino agli estremi di un paradosso: pagare di più il dipendente negli ultimi anni di carriera, quando rende di meno, invece che valorizzarlo nelle fasce anagrafiche (ad esempio, dai 28 ai 40 anni) dove potrebbe sprigionare meglio la sua produttività. Nel resto d'Europa, viceversa, le retribuzioni aumentano in un rapporto di coerenza con la produttività, raggiungendo il picco verso i 35-40 anni. Il caso più emblematico è quello della Germania. Gehalt, un database sulle retribuzioni nel mercato tedesco, mostra che la retribuzione annua lorda si attesta a 30.056 euro a 20 anni, salendo a 37.109 euro a 25 anni, 45.109 euro a 30 anni, 51.712 a 35 anni, 55.495 euro a 40 anni e 57.155 euro a 45 anni. Dopo quella soglia, i valori si stabilizzano con oscillazioni minime, raggiungendo i 58.229 euro oltre i 60 anni di età. In Italia bisogna aspettare almeno 15 anni in più, visto che i massimi retributivi arrivano intorno ai 55 anni. Quando il potenziale, salvo casi eccezionali, è molto più fiacco rispetto a quella che si potrebbe mettere a frutto fra i 20 e i 40 anni [...].
Ed eccoci al secondo handicap più evidente: lo squilibrio tra retribuzioni offerte in Italia e negli altri Paesi europei, una fra le molle che scatenano il fenomeno della migrazione di talenti che sta costando al Paese una buona quota di laureati e risorse specializzate. I media arrivano anche a eccedere con la retorica della “fuga all'estero”, dando a volte per scontato che il trasferimento oltre ai confini sia dettato esclusivamente da una questione retributiva. Ma è anche impossibile smentire, dati alla mano, che gli stipendi esteri siano superiori a quelli proposti in Italia nello stesso range anagrafico. A maggior ragione quando il termine di confronto si concentra sulla categoria dei laureati, la branca che – in teoria – include una delle categorie più preziose di lavoratori. Willis Tower Watson, una società di consulenza, prova a confrontare periodicamente i livelli retributivi internazionali con il suo Global 50, un ranking sul valore medio degli stipendi.
La classifica viene stilata confrontando 60 Paesi e le rispettive retribuzioni sulla base di tre criteri: stipendi lordi, stipendi netti e il rispettivo potere d'acquisto. L'esito dell'ultima edizione, nel 2018, mostra come i lavoratori italiani si posizionino già in fondo alla graduatoria su scala europea. Il divario non può che aggravarsi nel caso degli entry level, «ovvero i neolaureati appena affacciatisi al mondo del lavoro». I giovani italiani sono penalizzati sia in termini di retribuzione lorda sia nel potere d'acquisto relativo. «L'Italia è tredicesima con un reddito lordo medio di 30.987 euro, in una classifica che vede sempre al vertice la Svizzera (80.761 euro di media), davanti a Danimarca e Norvegia, con la Germania quarta e il Lussemburgo quinto» si legge nel report. «Se invece si considera la graduatoria per potere d'acquisto, l'Italia scende al quindicesimo posto con 25.213 euro, poco al di sopra dei compensi registrati dai neolaureati sloveni e portoghesi, superati anche dai coetanei inglesi e spagnoli».
Estratto da “Gioventù sprecata. Perché l'Italia ha fallito sui giovani” di Alberto Magnani, Castelvecchi editore.
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