Le 458 tv locali in sofferenza. «Ma siamo aziende di pubblico interesse»
di Andrea Biondi
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«Chi arriva prima sul posto quando deraglia il treno in Puglia?». E poi: «Chi riesce a fare immediatamente dirette se succede un terremoto a Ischia?». In più: «Chi fa una programmazione ad hoc per dar conto del miracolo di San Gennaro?». Per Paolo Torino, editore di Canale 21 – storica emittente di Napoli e Campania che da tre anni è sbarcata anche nel Lazio sull’Lcn 10 dopo aver acquistato l’emittente Super 3 – la risposta non può che condurre a quelle che «chiamare emittenti locali è riduttivo. Le nostre sono aziende di pubblico interesse».
Che non se la passano bene, va detto subito. Nel 2015 (l’ultimo anno con bilanci pubblicati da tutte le società e aggregato in uno studio da Confindustria Radio Tv) il comparto comprendeva 458 società televisive locali. Di queste solo 338 hanno pubblicato il bilancio, in calo di 32 soggetti (-8,6%) rispetto al 2014. Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna e Puglia rappresentano il 29% delle imprese totali (rapportate alle 458) e oltre la metà dei ricavi di un settore che nel 2015 ha fatturato 323,7 milioni (-10% sul 2014). In 10 anni il valore si è dimezzato (647 milioni i ricavi del 2006) mentre le perdite consolidate sono salite a 400 milioni nel periodo “post-analogico”(64 milioni il passivo nel solo 2015). Anche gli addetti che erano circa 5mila sono scesi a 3.180 nel 2015 (-13,3% sul 2014). E si parlava del 2015. Poi sono intervenuti ridimensionamenti e chiusure in tutto il territorio nazionale. Alcune di queste anche per questioni di interferenze di frequenze con le nazioni confinanti. In generale, però, sul comparto la crisi si è abbattuta con violenza, colpendo realtà anche consolidate costrette in alcuni casi ad alzare bandiera bianca e a passare di mano per continuare a sopravvivere. Roma Uno, Antenna Tre Nordest, Quarta Rete ne sono un esempio. E ora? «C’è un timido risveglio negli investimenti pubblicitari a livello locale. Volendo considerare questi fenomeni che passano attraverso di noi – dice Sandro Parenzo, editore di Telelombardia – un termometro della ripresa, i segnali sono da leggere positivamente».
Ma si tratta di gocce in un mare molto agitato. Solo per fare un esempio in questi giorni si sta tanto discutendo delle situazioni di Antenna 5 di Empoli e di Italia 7 di Firenze. In questi come in altri casi l’indice viene puntato, oltre che sulla crisi strutturale del settore, anche sul ritardo nell’erogazione dei contributi statali. Su quest’ultimo fronte un cambiamento nell’ultimo anno è intervenuto con l’approvazione del regolamento (Dpr 146/2017) che riforma il sistema dei contributi all’emittenza radiotelevisiva locale. Varie le novità, a partire dal “braccio operativo”: la piattaforma telematica del ministero per lo Sviluppo economico per la presentazione delle domande del contributo, denominata Sicem. Il nuovo regolamento – che prevede graduatorie nazionali e non più le regionali stilate dai Corecom – supera la precedente erogazione a pioggia e, prevedendo criteri selettivi di merito come richieste sul numero dei dipendenti, limiti alle televendite e altro, punta a ridare slancio a un settore che si sta leccando le ferite, stretto fra crisi, cambiamenti tecnologici (lo standard Dvb-T2), piattaforme on demand, cambio delle frequenze per far posto al 5G.
A partire da fine novembre le emittenti tv e radio hanno potuto presentare domande di contributi per il 2016. Poi fra gennaio e febbraio quelle per le altre due annualità. Il Mise sta lavorando alle graduatorie per risorse (per l’85% alle tv locali e il resto alle radio con riserva per tv e radio comunitarie) che per il 2016-2018 si attestano poco sotto i 100 milioni annui. Come si legge nel sito del ministero, le domande presentate sul Sicem da radio e tv per l’annualità 2018 (scadenza 28 febbraio) sono state 1.029 (186 tv commerciali; 238 tv comunitarie, vale a dire quelle no profit; 302 radio commerciali; 303 radio comunitarie). Sostanzialmente in linea le domande per i contributi per il 2017 (1.044) e per il 2016 (1.001).
Il Mise sta lavorando sulle graduatorie, ma i ricorsi al Tar non hanno tardato, anche perché uno dei criteri necessari per le graduatorie è la certificazione dei dati Auditel. Ma, solo per dar un ordine di grandezza, a marzo le emittenti rilevate da Auditel erano 159 (con un ascolto medio di 150mila spettatori al giorno): numero quindi ben diverso dal totale di 458 società televisive prese a esame nello studio di Confindustria Radio Tv. Di ricorsi se ne contano almeno 6 e l’udienza di merito è fissata per il 17 ottobre. «Le erogazioni dei contributi non possono attendere. Con il nuovo Regolamento – spiega Franco Siddi, presidente di Confindustria Radio Tv – si è imboccata una strada di innovazione. Questi ricorsi rischiano di mandare in tilt il processo. L’auspicio è che si riesca a fare chiarezza al più presto possibile. Se serve, pure con un intervento normativo per favorire anticipazioni nelle more del giudizio». Questo anche perché, come spiega il direttore di Confindustria Radio Tv Rosario Donato, «i ricorsi sono arrivati in un momento particolarmente critico per le emittenti televisive locali, fortemente marginalizzate dal digitale terrestre. Con il crollo dei ricavi pubblicitari il sostegno dei contributi, erogati con criteri di merito e non a pioggia, rimane uno strumento centrale per il rilancio e la sostenibilità del settore». Tanto più in un momento che, come detto, è critico, con i dati dei bilanci 2016 che confermerebbero una stabilizzazione dei ricavi pubblicitari, ma solo per una caduta che si arresta, e a livelli decisamente più bassi rispetto agli anni d’oro dell’analogico: erano 450 milioni di euro nel 2009 e Crtv ne stima 250 milioni nel 2016. «Il contenzioso – dice Marco Rossignoli (Aeranti Corallo)– rischia di danneggiare il comparto radiotelevisivo locale in quanto in caso di accoglimento dei ricorsi vi potrebbero essere tempi molto lunghi per modificare il Regolamento adottato dal Governo».
«Il ragionamento sui contributi va inserito in un discorso complessivo», spiega Filippo Jannacopulos alla guida di Media Nordest, network di cui fanno parte 4 emittenti storiche (Antenna 3 Nordest; Rete Veneta; Telenordest e Tele 4 Trieste) con 5 milioni di euro di fatturato. Ricavi che possono considerarsi sufficienti? «Siamo il più grande network televisivo del Nord-Est. Detto ciò, è chiaro che prima del 2006 solo Antenna 3 Nordest, che era del Gruppo Panto, realizzava 5 milioni di fatturato». Per Jannacopulos il ruolo delle tv locali ha ancora un senso per il futuro «se punta sull’informazione, che è il contenuto distintivo. Penso in particolare ad aree come Nord-Est, Sicilia, Sardegna o Puglia: zone “identitarie” non coperte adeguatamente dai network nazionali e che hanno necessità di informazione locale». Dello stesso parere Sandro Parenzo, editore di Telelombardia, realtà che insieme con Top Calcio 24 e Antenna 3 è all’interno del gruppo Mediapason, che i morsi della crisi li ha sentiti, eccome. «Se il signor Warren Buffett – dice Parenzo – sta comprando negli Usa solo giornali e televisioni locali un motivo ci sarà. E per il futuro si potrebbe e si dovrebbe spingere sui consorzi, sui circuiti di tv locali». Per Luca Montrone, presidente del gruppo Norba (Telenorba, Teledue, TG Norba 24), discutere di emittenza locale significa parlare dell’economia dell’Italia «dove le Pmi rappresentano una parte preponderante del Pil. L’82% della forza lavoro è fatto dalle piccole e medie aziende. A livello locale noi media facciamo conoscere i prodotti delle piccole e medie aziende che più vendono, più producono, più pagano tasse e creano occupazione. Le tv locali creano non solo pluralismo, ma anche crescita, occupazione e Pil. Vanno rilanciate. E senza perdere tempo».
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