Le aspettative d’inflazione troppo lontane dall’obiettivo
di Riccardo Sorrentino
3' di lettura
Perché un intervento così ampio, ora? La risposta potrebbe sembrare semplice: le prospettive peggiorano, l’economia rallenta, il manifatturiero soffre, le tensioni commerciali sono forti. La Bce non ha neanche tenuto conto - ha spiegato il presidente Mario Draghi - dei rischi crescenti di un hard Brexit o di un’escalation della guerra commerciale, come si è prefigurata in agosto. La Germania, “locomotiva” d’Europa, non è forse sull’orlo di una recessione? E se Atene piange...
Bce divisa sulla diagnosi dell’economia
Le cose però non sono così semplici. Alcuni governatori, ieri, hanno espresso qualche perplessità - ha rivelato Draghi - sulla reale severità delle prospettive economiche. Chi voglia guardare le cose con lenti meno scure potrebbe infatti sottolineare il calo della disoccupazione, l’aumento dei salari, e quindi la tenuta del potere d’acquisto, la probabile ripresa dell’inflazione. L’andamento del Pil dell’intera Eurolandia appare sì rallentato ma solo rispetto al surriscaldamento dei mesi scorsi, e non sembra ancora essere sceso al di sotto, se non marginalmente, delle (più semplici) misure della crescita potenziale.
I limiti della politica economica
La politica fiscale e monetaria del resto poco altro possono fare che riportare l’attività a questa “velocità di crociera”. I modelli della Bce (il Multi-country model, in particolare) mostrano che una variazione temporanea di 50 punti base nei tassi a breve determina un effetto temporaneo sul pil non superiore allo 0,2% rispetto allo scenario di base, con qualche variazione da Paese a Paese (gli investimenti in Italia e Spagna sono più sensibili al costo del credito che altrove). Durante una politica espansiva, e con rendimenti decrescenti delle misure di politica monetaria - pur tenendo conto che il taglio non è temporaneo - forse si può ipotizzare un effetto anche inferiore.
Aspettative in forte flessione
La chiave è altrove. Le cattive prospettive di crescita si trasformano in più basse aspettative di inflazione; e la politica monetaria non può fare altro, in modo davvero efficace, che gestire queste attese, le quali, oltretutto, incidono sull’inflazione molto più della crescita e dei margini aziendali (che misurano il pricing power). Oggi la Bce sta effettivamente assistendo a una brusca flessione di alcune misure di queste aspettative. Gli inflation rate swaps per il periodo 2024-2029, per esempio, indicano da gennaio un livello inferiore all’1,5%: sono scese fino a un minimo a 1,13% e dopo l’annuncio, a giugno, di una nuova fase ultraespansiva non sono salite oltre quota 1,35%. Mercoledì erano a 1,2350%, ieri erano salite all’1,2990%. È probabile che Draghi si riferisse a questa misura quando ha parlato di aspettative di inflazione che si stanno forse riancorando a un livello compreso tra l’1 e l’1,5%.
Il rischio di un nuovo ancoraggio
È questo aspetto che ha fatto scattare l’allarme. O, se si vuole, questa è un’argomentazione ben trovata per giustificare un pacchetto di misure così incisivo: sorprende un po’ in realtà sentire Draghi dire che il Qe modifica le aspettative «perché mostra l’impegno della Bce» a centrare l’obiettivo. Ammesso però che quelle misure siano corrette - e i dubbi ci sono - aspettative ancorate a un livello così basso hanno davvero l’“effetto” di frenare i prezzi a quella velocità. Le proiezioni macroeconomiche indicano oltretutto un’inflazione media annua pari all’1,2% per quest’anno, all’1% per il prossimo e all’1,5% per il 2021. Recenti previsioni di altre istituzioni non vanno oltre l’1,6%.
Cambiare l’obiettivo di inflazione?
La persistenza della bassa inflazione fa in realtà pensare che siano in gioco fattori strutturali contro i quali la politica monetaria potrebbe rivelarsi impotente (a meno che non diventi avventata, con il rischio di perdere il controllo dei prezzi). Avrebbe poco senso però modificare l’obiettivo di inflazione, che pure sarà riconsiderato nella strategic review promessa dalla nuova presidente Christine Lagarde. Alzarlo al 4%, come ha proposto per primo Olivier Blanchard ex capoeconomista dell’Fmi, potrebbe mettere ancora di più in rilievo le difficoltà della banca centrale a riportare l’inflazione verso l’alto senza quindi risollevare le aspettative di inflazione. Portarlo all’1-1,5% «e dichiarare vittoria» - come ha detto ironicamente Draghi - significherebbe però generare un effetto restrittivo perché a cambiare sarebbero le aspettative sulla politica monetaria: tassi oggi giudicati “espansivi” diventerebbero neutri o addirittura disinflazionistici. In ogni caso - e Draghi lo ha fatto capire - la Bce potrebbe perdere credibilità.
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