Le autocrazie elettorali tra identità rivendicate ed economie in difficoltà
Secondo l’«Economist», erano le elezioni più importanti dell’anno, perché «in un’era in cui gli uomini forti hanno il vento in poppa dappertutto, dall’Ungheria all’India, far fuori pacificamente [Recep Tayyip] Erdogan mostrerebbe che gli uomini forti possono essere sconfitti».
di Andrea Goldstein
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Secondo l’«Economist», erano le elezioni più importanti dell’anno, perché «in un’era in cui gli uomini forti hanno il vento in poppa dappertutto, dall’Ungheria all’India, far fuori pacificamente [Recep Tayyip] Erdogan mostrerebbe che gli uomini forti possono essere sconfitti». E invece il presidente turco, al potere dal 2003, ha sopravvanzato il rivale Kemal Kilicdaroglu ed è ad un corto passo dall’ottenere un nuovo mandato fino al 2026, anche se ha subito l’ignominia del secondo turno.
Eppure, quella che sarebbe potuta essere un’altra giornata difficile per la democrazia liberale si è alla fine rivelata una data da celebrare per chi teme l’avanzare dei populismi. In Thailandia, le elezioni parlamentari parziali (le forze armate designano 1/3 dei deputati) hanno visto la chiara affermazione dell’opposizione, ancorché tuttora divisa, e l’altrettanto cocente sconfitta del partito vicino ai militari. Quello indiano, dal canto suo, è stato uno scrutinio regionale, nella misura in cui si può considerare minore il Karnataka, con i suoi 70 milioni di abitanti e una capitale, Bangalore, nota come la capitale mondiale dell’offshoring di servizi informatici. Era l’unico stato dell’India meridionale governato dal partito di Narendra Modi, che gli elettori hanno punito, consegnando all’opposizione la più ampia maggioranza
di seggi nel parlamento locale dal 1989.
Tre Paesi certamente diversi, ma anche con molti punti in comune. Intanto non sono democrazie liberali – la classificazione dell’Università di Göteborg, la più robusta in materia, definisce «autocrazie elettorali» India e Turchia e «autocrazia chiusa» la Thailandia. In più ciascuna ha fatto dei passi indietro nell’ultimo decennio, a seguito della rimozione di autorità democraticamente elette, cambi profondi delle regole del gioco che hanno svuotato il Parlamento di molte prerogative e indebolimento delle istituzioni indipendenti come banca centrale, media e magistratura. In Paesi fortemente eterogenei dal punto di vista etnico e religioso, gli uomini forti non hanno esitato a issare le bandiere dell’identità: quella sunnita contro il secolarismo alevita ad Ankara, quella nazionalista dell’hindutva contro i musulmani a Delhi.
E quando tutto ciò non è stato sufficiente, nessun strongman ha esitato a perseguire penalmente gli oppositori: l’imprenditore Osman Kavala langue nel carcere di massima sicurezza di Silivri dal 2017 (malgrado una procedura d’infrazione disposta dal Consiglio d’Europa per le condizioni processuali), Rahul Gandhi è stato destituito del suo seggio parlamentare per un delitto di calunnia che tutti i partiti d’opposizione hanno denunciato come infondato, gli ex primi ministri Thaksin e Yingluck Shinawatra si sono auto-esiliati dopo condanne comminate in absentia. Del resto a Bangkok dal 1932 ci sono stati 19 colpi di Stato riusciti e la Costituzione è stata emendata 18 volte, bloccando ogni tentativo di creare una monarchia costituzionale sul modello europeo.
Queste derive spiegano però solo in parte la perdita di consensi dei leader autoritari. Se la crescita economica è restata sostenuta, sono le condizioni che l’hanno consentita e le caratteristiche che ha assunto ad essersi dimostrate penalizzanti.
Erdogan ha imposto la propria originale interpretazione del nesso tra tassi d’interesse e crescita dei prezzi, con la conseguenza che ridurre i primi ha fatto scattare l’inflazione, una perdita di potere d’acquisto che mette un po’ in ombra l’andamento del Pil. In uno degli stati più ricchi dell’India, i frutti della crescita sono mal distribuiti e pochi posti di lavoro vengono creati per una gioventù che cresce ed è cosciente che di sole politiche comunitariste non si vive. La corruzione del partito al potere è poi una costante ovunque, un male endemico cui nulla garantisce che nuove forze politiche, finanche guidate da laureati del Mit come Move Forward in Thailandia, saranno esenti. Ma i ceti medi nei Paesi emergenti non sono sempre disposti a sopportare l’ingiustizia in nome di una rassicurante stabilità.
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