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Tra le sei aree tematiche strutturali di intervento del Piano Next Generation, varato dalla Commissione europea con l'intento di aiutare gli stati dell'Unione a riparare i danni economici e sociali causati dall'emergenza sanitaria da coronavirus, e nello stesso tempo gettare le basi per rendere le economie e le società dei paesi più sostenibili, resilienti e preparate alle sfide e alle opportunità della transizione ecologica e digitale, vi è quella della coesione sociale e territoriale. In virtù di tale indirizzo l'Italia è tra i Paesi membri quello che ha ricevuto la dote finanziaria più alta, potendo vantare il poco onorevole primato divari e indici di diseguaglianza tra i più elevati del continente. In tale contesto socioeconomico riesce davvero difficile definire “riforma”, ovvero un processo politico delineato su rinnovate esigenze. No, l'autonomia rafforzata delle regioni più ricche del Paese – perché di questo stiamo parlando – non è assolutamente quel che serve oggi all'Italia.
Va sgomberato il campo da una retorica che ammanta la propaganda dei sostenitori dell'autonomia differenziata, e richiama la presenza di divari anche senza regionalizzazione spinta delle competenze. Capovolgiamo l'approccio: se davvero l'interesse fosse quello di uno sviluppo equilibrato e omogeneo del Paese, risolvendo quindi i ritardi di crescita economica e le emergenze sociali che soffocano il Sud, in che modo lo favorirebbe un processo di autonomia rafforzata in poche regioni? Una domanda che resta inevasa o rimanda a una sorta di provvedimento taumaturgico, che in un solo colpo ridesterebbe competenze ed energie delle classi dirigenti, del ceto imprenditoriale, dei cittadini del Mezzogiorno. Una sorta input alla sopravvivenza nel momento in cui si sceglie di sottrarre ulteriori risorse alla parte più debole del Paese.
Così come va spazzata via l'enfasi di chi sottolinea che solo oggi, di fronte a un provvedimento di questa portata, ci si ricorda dei divari territoriali. Come Cgil siamo stati forse la sola organizzazione nazionale che per anni ha promosso piattaforme e mobilitazioni per rivendicare una diversa attenzione al Mezzogiorno, in termini di politiche e investimenti, perché elemento centrale e ineludibile di crescita di tutto il Paese. Sono note le nostre proposte e le strategie per affrontare le esigenze di un territorio dove vivono 20 milioni di persone, che in termini di spesa registrano un import che per il 70 per cento proviene dalle regioni del Nord. Interconnessioni naturali in un sistema Paese, al quale risulta miope guardare con la lente regionalistica se si parla di contributi e risorse pubbliche. Aumentare la ricchezza di chi vive nel Mezzogiorno serve anche alle imprese e ai territori del Nord.
Procedendo per sottrazione, anche il tema dei Livelli essenziali delle prestazioni non sono parte del processo di autonomia, prima della quale andrebbero seriamente affrontati gli esiti dalla riforma del titolo V della Costituzione a distanza di oltre venti anni. In ogni caso i Lep avrebbero dovuto essere e sono ancora oggi una priorità per garantire a ogni cittadino l'esigibilità e l'uniformità di servizi e tutele dello Stato, a prescindere dal luogo in cui si nasce o si sceglie di vivere. Senza, si è proceduto ad assegnare risorse – ad esempio ai Comuni - sulla base di fabbisogni standard, definiti sulla spesa media degli enti. Che ha naturalmente penalizzato gli enti con minor capacità.
Anni di sotto-investimento pubblico che hanno acuito quei divari che l'Europa chiede di affrontare, a partire dal miglior utilizzo del Pnrr così come dei fondi della programmazione pluriennale. Citare qualche dato aiuta a inquadrare il contesto: consultando il Sistema informativo dei Conti Pubblici Territoriali dell'Agenza per la Coesione, e prendendo a riferimento la spesa del cosiddetto Settore Pubblico Allargato – che comprende le amministrazioni ma anche le imprese pubbliche nazionali, regionali e locali - quella pro capite vede agli ultimi quattro posti Puglia, Sicilia, Calabria, Campania. In Puglia è di 13.383 euro, in Lombardia di 16.354 euro. Altro dato da evidenziare, quello relativo alla spesa delle imprese pubbliche nazionali, spesso volano di sviluppo territoriale, in grado ad esempio di trascinare ricerca e innovazione: in Puglia la spesa è stata di 9 miliardi, in Lombardia di 28 miliardi.
La propaganda che sostiene l'autonomia è contro fattuale, viola il principio di solidarietà e sussidiarietà previsto dalla Costituzione, nega gli indirizzi del Piano comunitario tradotto nel Pnrr oltre che la necessità di un governo delle politiche energetiche – per citarne una di stringente attualità – che nemmeno avrebbe bisogno di una regia comunitaria e nemmeno nazionale, figuriamoci regionale, ha sollevato critiche e obiezioni di tantissimi economisti e amministratori locali. C'è oramai una robusta pubblicistica fatta di studi e ricerche di organismi indipendenti che dimostra come l'aumento delle disuguaglianze territoriali interne rappresenti un freno alla crescita economica dell'intero Paese.
Segretario Generale CGIL Puglia
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