Le aziende come comunità: se non ora, quando?
È indispensabile mostrare attenzione e vicinanza alle persone e alle famiglie, soprattutto verso chi è costretto a periodi di isolamento domestico
di Andrea Beretta *
4' di lettura
Scrivo questa breve considerazione da casa, in pieno regime Covid, con un profondo senso di solitudine e di fatica. Circa 15 giorni fa Francesco, diciassette anni, è risultato positivo al tampone, effettuato in seguito alla comparsa di sintomi lievi ma persistenti. È scattata la quarantena e, con mia moglie, abbiamo cercato di organizzare al meglio l'isolamento di Francesco, quello di suo fratello tredicenne Pietro, e il nostro, provando a garantire, per quanto possibile, un po’ di continuità e di serenità al nostro tran tran famigliare.
Dopo qualche giorno sono comparsi anche a me i primi sintomi. Fatto il tampone, sono risultato come prevedibile positivo. Per fortuna sintomi non gravi, rispetto a quel che si sente e si legge, e gestibili da casa senza dover far ricorso a strutture ospedaliere. Passeremo un mese in casa, se tutto va bene: ciascuno in una stanza diversa (abbiamo questa fortuna e mi chiedo come sia possibile garantire una forma di quarantena idonea a quanto ci è richiesto, fossimo in quattro persone in un bilocale) muovendoci poco o niente fuori dalle nostre stanze, sempre usando guanti e mascherine.
Fatica e solitudine sono le due emozioni che mi accompagnano in queste settimane: provo a spiegare meglio. Solitudine. Aristotele diceva che l'uomo è un animale sociale. Noi siamo in quattro in casa. Eppure trovo disumana questa inevitabile e forzata clausura, ciascuno nella sua stanza a pranzare e a cenare, a fare i compiti e a lavorare, a gestire i suoi momenti di sconforto e di debolezza, le sue telefonate, i suoi pianti e i suoi pensieri.
Parlarsi a distanza, ridere o provare a sdrammatizzare a distanza, prendersi cura a distanza: non è nelle mie corde. Si fa, si deve fare, si può fare. Ma nel mio e nel nostro caso non ci si abituerà. Ciò ha sicuramente a che vedere con la nostra storia, con le nostre consuetudini, con il nostro lessico famigliare: che ci siamo scelti e abbiamo perseguito perché ci piaceva. E non vediamo l'ora di tornare a toccarci, abbracciarci, accarezzarci o gridarci in faccia, a un palmo di naso, come succede ogni tanto in una casa con due adolescenti energici.
Fatica. “Mens sana in corpore sano”. Dopo i primi giorni piuttosto duri a causa dell’esprimersi del Covid, che si è fatto sentire, ho deciso di ricominciare a lavorare: per dare una mano ai colleghi, per dare seguito a richieste e a progetti dei clienti rimasti in sospeso, per ritrovare anche io una parvenza di normalità, seppur da casa e nonostante lo stato di salute non ottimale.
Aprire il PC, rispondere alla mail, aggiornare il calendario, trascrivere in agenda impegni saltati e da ripianificare: ho iniziato dalle attività più semplici, non da webinar di una giornata intera o da Team Coaching più impegnativi. E si sono sommate due fatiche. Una fatica fisica, dovuta al riemergere dei dolori alla schiena e ad una spossatezza diffusa, dopo essere stato seduto appena mezz'ora alla scrivania. E una fatica emotiva o psichica: la fatica di riaprire i file mentali, di tornare a pensare a un mondo, lì fuori, lontanissimo da una routine casalinga fatta di tutt'altri gesti, momenti e pensieri.
Ho forse ripreso troppo presto? Non lo so. Mi sembrava, a dire il vero, un modo per ritrovare energia e stimoli che avrebbero potuto generare benefici e portare una qualche forma di dinamicità, non tanto alle mie giornate quanto alle pur scarse e distanti interazioni in famiglia. Eppure qualcosa non ha funzionato e non sta funzionando.
Mi sono chiesto, sulla base di questa mia personalissima esperienza, cosa le comunità aziendali possono fare per alleviare, qualora non fosse solo il mio caso, questo senso di fatica e di solitudine che potrebbe pervadere la vita casalinga di tante persone in questo periodo. E in particolar modo se le Direzioni HR hanno le leve per “esserci” con colleghi e colleghe bloccati a casa in una situazione di quarantena, magari non perché è stato riscontrato loro il virus bensì ai loro famigliari. E mi sono venute in mente poche cose, non so nemmeno se praticabili o compatibili con le infinite forme contrattuali presenti nel mondo del lavoro.
Uno: lasciate libere le persone di poter lavorare o di non lavorare. In taluni casi il lavoro può essere d'aiuto, perfino terapeutico; in altri per nulla. Non saranno alcuni giorni in meno di prestazioni lavorative a farvi “bucare” l'anno.
Due: regalate libri, film e musica. Per ragazzi e per adulti. Fate sì che la vostra azienda si trasformi, per un breve periodo, in una grande libera e accessibile piattaforma di intrattenimento ed edutainment digitale.
Tre: offrite forme di supporto alla gestione e risoluzione dei piccoli e grandi problemi quotidiani che una famiglia in quarantena deve affrontare, dalla rete domestica da potenziare alle difficoltà nell’orientarsi nel mondo dei servizi socio-sanitari in questo momento, dalla necessità della spesa all’assistenza ai genitori anziani che non si possono più andare a trovare.
Quattro: fatevi sentire, letteralmente. Organizzatevi in modo da riuscire a telefonare o a videochiamare con frequenza e costanza colleghi e colleghe. E fate sentire la vostra voce, la vostra prossimità, la vostra vicinanza, il vostro rispetto, il vostro avere a cuore disinteressato.
Se non ora, quando?Le aziende sono comunità, diciamo spesso. E le comunità sono persone che si legano, almeno per un po' di tempo. E non c’è e non ci può essere legame, senza cura. La Cura dello sguardo, come ci rammenta Franco Arminio. E la cura delle parole. A ricordare e a ricordarci che “ognuna delle nostre ossa è impastata col sudore di tutti”.
* Partner di Newton S.p.A.
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