gli scenari

Le banche centrali e il dilemma irrisolto dell’inflazione bassa

di Alessandro Merli

(Agf creative)

3' di lettura

Il mistero dell’inflazione bassa. Con una ripresa dell’economia sostenuta quasi ovunque e nonostante tutti gli sforzi compiuti in questi anni dalle grandi banche centrali, prima per combattere lo spettro della deflazione, poi per far risalire l’inflazione verso gli obiettivi, questa rimane tenacemente bassa, negli Stati Uniti e soprattutto nell’Eurozona e in Giappone. Le aspettative di inflazione futura restano a loro volta molto al di sotto dello sperato. Banchieri centrali ed economisti, così come i mercati finanziari, si interrogano ora, quando la situazione appare tutto sommato stabile, sulla soluzione di questo puzzle, anche per la preoccupazione di non farsi trovare impreparati quando la prossima crisi colpirà.

Claudio Borio, capo economista della Banca dei regolamenti internazionali, la “banca centrale delle banche centrali”, ritiene che negli ultimi anni sia stata sottostimata l’influenza dei fattori reali sull’inflazione: per esempio della globalizzazione (con l’arrivo sui mercati dei prodotti dalla Cina e la creazione delle catene globali di produzione) e, a più lungo termine, della tecnologia. Olivier Blanchard, che, prima al Fondo monetario e ora al Peterson Institute, si è fatto promotore da anni di un benemerito sforzo per “ripensare la macroeconomia” dopo la crisi, ritiene che questo sia vero solo in parte: l’effetto della deflazione importata non può essere maggiore della quota dell’import nell’economia, e quello della tecnologia, per esempio dei robot che sostituiscono i lavoratori, sta avvenendo troppo lentamente per influenzare ora il mercato del lavoro e quindi l’inflazione.

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Certamente, il vecchio paradigma della curva di Phillips, secondo cui a una riduzione della disoccupazione corrisponde un aumento dei salari, e, successivamente, dei prezzi, fatica a reggere. La curva è diventata più piatta, nel gergo degli economisti, e si è spostata verso il basso. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ritiene che questo abbia a che fare con i cambiamenti nella struttura del mercato del lavoro. «Le stime della capacità inutilizzata potrebbero essere più alte delle cifre sulla disoccupazione (uno studio recente della Bce nota che, comprendendo la sotto-occupazione involontaria, si potrebbe arrivare fino al doppio del 9% delle cifre ufficiali, ndr) - ha detto nei giorni scorsi al Peterson – inoltre, nei negoziati salariali, le parti guardano indietro, a un periodo di inflazione molto bassa; la crescita della produttività resta bassa; e la strategia negoziale dei sindacati è diretta ad assicurare i posti di lavoro, più che aumenti salariali». La crescita dei salari, secondo il recente “World Economic Outlook” del Fondo monetario, «può rimanere modesta fino al riassorbimento dell’occupazione part-time involontaria o alla ripresa della tendenza della produttività». Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ritiene che per valutare la risposta dei salari si debba guardare all’evoluzione delle ore lavorate, più che alla disoccupazione.

È possibile, sostiene l’annuale Rapporto di Ginevra, pubblicato ieri dall’International Central Banking and Monetary Studies e dal Centre for Economic Policy Research, e dedicato proprio a questo tema, che l’inflazione di fondo si sia spostata permanentemente verso il basso dopo la crisi e questo è una fonte di preoccupazione in quanto, all’arrivo della prossima crisi, le autorità monetarie (che stavolta hanno avuto anche un po’ di fortuna con il boom dei prezzi delle materie prime proprio in coincidenza con la minaccia della deflazione) abbiano meno spazio per ridurre i tassi d’interesse e attutire lo shock. Gli autori del rapporto (David Miles, Ugo Panizza, Ricardo Reis e Angel Ubide) ritengono che sia desiderabile rivedere periodicamente l’obiettivo d’inflazione e tenere i bilanci delle banche centrali (che si sono molto ampliati con il Qe) assai più grandi che prima della crisi. Blanchard ritiene da tempo che lo spazio vada creato alzando il target al 4% (oggi è al 2 negli Usa e in Giappone e “sotto, ma vicino al 2” nell’Eurozona). Stan Fischer, il vicepresidente uscente della Federal Reserve ed ex governatore della Banca d’Israele, è convinto che un intervallo, come usava appunto in Israele fra l’1 e il 3%, possa rivelarsi molto utile. L’ex presidente della Fed, Ben Bernanke, è favorevole a spostarsi temporaneamente, quando i tassi arrivino al limite minimo, da un obiettivo d’inflazione a uno per il livello dei prezzi. In ogni caso, quando scoppierà la prossima crisi, sostiene il Rapporto di Ginevra, sarà meglio non aspettarsi troppo dalla banche centrali, ma comunque non legare loro le mani riguardo agli strumenti da utilizzare.

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