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Le carceri e il dovere del rieducare

La giustizia penale mira a ricondurre il condannato a una consapevole e interiore libertà

di Natalino Irti

(IMAGOECONOMICA)

3' di lettura

«Anche agosto, anche agosto/andato è per sempre!»

Così canta in strofa alcionia il poeta della terra d’Abruzzi. Giunge il pallido settembre con sue trepidezze e malinconie.

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Lo sguardo dello spettatore si fa più prensile e desto. Incalzano eventi politici, gridìo di promesse, unirsi e dividersi di fazioni. Ingannevoli “programmi” tengono luogo delle idee: non si ascolta parola, che segni la direzione comune e indichi il “verso dove”.

L’animo se ne distoglie deluso, e dentro gli preme un fatto doloroso della fuggente estate. Una giovane donna che in carcere decreta la propria fine; la nobile e scavata lettera d’un giudice. Si avverte come una disperata indignazione, un fremito amaro della coscienza, un dubitare intorno alle ragioni stesse del nostro convivere.

Perché convivere è rompere la solitudine, spezzare il duro confine tra privato e pubblico, e dunque far proprie le cadute e debolezze e angosce dell’esistenza individuale. E sovrattutto non rinserrarsi entro la crudele superbia del giudizio.

C’è nella nostra Carta una norma, che ha la perentoria severità d’un monito religioso: art. 27, nel secondo comma: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». È chiusa per noi l’antica disputa sulla funzione della pena, ormai destinata, per vincolo costituzionale, al fine pedagogico. “Rieducazione del condannato”: sì, condannato, e dunque oggetto di giudizio secondo le leggi dello Stato; ma condannato al fine della rieducazione.

La quale è parola di profonda serietà; e tutto ispira, o dovrebbe, il cammino della giustizia penale. In essa non c’è tratto di violenza pedagogica (come pur si conosce in pagine oscure del Novecento europeo), ma di restituzione alla consapevole e interiore libertà. Il condannato scelse tra le possibilità della vita; ed a codesta radice di libertà è ora da ricondurlo, e quasi ricollocarlo nel suo tempo. La storia del suo delitto è storia della sua libertà, del suo inerme trovarsi dinanzi a scelte e alternative di vita. Se vi fosse vincolo deterministico, naturale necessità di ciò che accade o viene compiuto, egli non sarebbe né colpevole né responsabile. E neppure si concepirebbe giudizio, ma soltanto un ricostruire scientifico di connessioni causali e derivazioni genetiche. La libertà è insieme fondamento del delitto, del giudizio, della pena.

Il fine supremo della rieducazione, se impone alla pena detentiva una misura che permetta di adempiere così arduo dovere, più ammonisce a ridurre e circoscrivere i reati colpiti con perdita della libertà personale. Onde ne sorge il terribile interrogativo: come rieducare, ossia restituire alla coscienza della libertà, l'uomo che ha perduto la stessa disponibilità del proprio corpo? non è forse la coercizione fisica intimamente avversa alla rieducazione dello spirito?

Questo è il dilemma, che emerge da quella lettera sconsolata; e va oltre il caso singolo fino a inalzarsi a essenziale problema del nostro stare insieme, del comune riconoscerci in un principio costitutivo. Vi vibra un’ansia di unità, che non separa il colpevole dal mondo, ma piuttosto ve lo riconduce mostrando che stava nella sua libertà di diversamente volere. In una storia del diritto penale, dettata, negli anni Trenta del secolo scorso, da un acutissimo filosofo di scuola gentiliana, si leggono parole di stringente profondità: «Quando il giudice giudica e punisce, non si volge propriamente all’altro da sé, ma a se stesso, e giudica e punisce se stesso in quanto umanità. Perché possa parlarsi veramente di pena, il giudice non deve essere estraneo al delinquente, né questo a quello: è l’uomo che in essi pecca e si redime». Nulla va aggiunto alla strenua lucidezza di Ugo Spirito. Il rieducare esige, come sempre, l’unità interiore tra i soggetti, sicché l’uno si riconosca nell’altro, e insieme trovino le aspre vie della libertà.

* * *

Sia lecito allo spettatore di dar notizia che due enti di rilievo – la società “Sport e salute”, guidata da Vito Cozzoli, e la “Fondazione Nicola Irti per le opere di carità e di cultura” – hanno stipulato un’intesa collaborativa per promuovere nelle carceri minorili il “rieducare” attraverso lo sport; e che su questo tema si fermò l’intensa prolusione accompagnatoria del prof. Gabrio Forti.

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