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Le cinque lezioni impartite dalla crisi del Credit Suisse

Nei grandi istituti in cui convivono business diversi il rischio va controllato in modo capillare

di Stefano Gatti

5' di lettura

Si dice spesso che la storia si ripete. Si dice anche,
altrettanto spesso, che la storia insegna (o dovrebbe insegnare). Vi sono però dei fatti che, nella loro disarmante similitudine, ci ricordano che le lezioni del passato o servono a poco o non vengono ascoltate.

Dopo meno di un mese dall’annuncio, il 27 ottobre, del nuovo piano strategico 2022-2025 e di una perdita di 4 miliardi di franchi svizzeri, Credit Suisse ha comunicato una ulteriore
perdita di 1,5 miliardi di franchi per il quarto trimestre, il quarto
profit warning
dall’inizio del 2022.

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Da prima del capital market day di fine ottobre, investitori e analisti si chiedevano se la banca svizzera sarebbe stata in grado di presentare un piano strategico senza richiedere anche ulteriore capitale agli investitori. In realtà, il piano ha sùbito messo in conto un aumento di capitale di 4 miliardi di franchi, di cui 1,5 miliardi verranno messi a disposizione dalla Saudi national bank che, in questo modo, diverrà il primo azionista con una quota intorno al 10 per cento

Il piano, poi, prevede un mix doloroso di azioni destinato a riportare il Cet1 ratio (il rapporto tra il capitale azionario di migliore qualità e il valore degli attivi ponderati per il rischio) al 14% dall’attuale 12,6%: una riduzione degli organici di circa 9mila dipendenti al 2025; un taglio complessivo di costi di 2,5 miliardi di franchi entro il 2025 (circa il 15% dell’attuale base dei costi della Banca); la vendita – attraverso la quotazione e successiva cessione di una quota rilevante – delle attività di investment banking sotto il nuovo brand di Credit Suisse First Boston (lo stesso nome è un chiaro rimando al passato…); la cessione della divisione securitized products ad Apollo e Pimco; la creazione di una Cru-capital release unit con il compito di gestire gli asset illiquidi e problematici.

Il piano non ne fa cenno, ma è naturale che questa cura drastica sarà accompagnata da un rafforzamento dei presidi di controllo e gestione dei rischi per cercare di limitare il più possibile il peso delle cause legali ancora pendenti di cui due, Greensill Capital e Archegos, sono state tra le altre la ragione dell’avvio del processo di ristrutturazione.

Nella visione del management, ne emergerà una banca diversa, decisamente ridimensionata, con un core business che torna alle origini dell’attività di banca commerciale radicata in Svizzera e con una presenza da leader nel segmento dell’asset e wealth management. I numeri riflettono gli obiettivi manageriali: tra il 2022 e il 2025 gli attivi pesati per il rischio riferibili alle attività di wealth management e asset management passeranno dal 60% a circa l’80% del totale, consentendo alla banca di crescere senza utilizzare troppo del prezioso capitale azionario che si sta per raccogliere dagli investitori sauditi e di mercato. I ricavi riferibili alle stesse due attività passeranno dal 57% a poco meno del 90 per cento. Dell’attività di investment banking, in termini di attivi e di ricavi, rimarrà ben poco.

Dove sta la storia che si ripete? Riportiamo l’orologio al periodo che va dal luglio 2015 al luglio 2019. In quei quattro anni, Deutsche Bank viveva un processo di ristrutturazione i cui tratti sono molto simili a quanto Credit Suisse sta affrontando oggi.

Quando John Cryan, il Ceo di Deutsche Bank, arrivò nell’estate 2015, la situazione di una banca piegata da rischi legali molto alti, da performance economiche e di Borsa deludenti e da una commistione mai rivelatasi virtuosa tra banca commerciale, investment banking e la partecipazione in PostBank richiedeva interventi molto pesanti. Cryan aveva chiara la necessità di migliorare il sistema dei controlli della Banca e migliorare la cultura del rischio per ridurre il potenziale effetto negativo delle cause pendenti. Aveva anche deciso di ridimensionare la banca vendendo le attività cinesi di Huaxia e una quota di minoranza di Dws, l’attività di asset e wealth management del gruppo per circa 1,5 miliardi di euro. Infine, il Ceo aveva chiara l’idea di spingere maggiormente su attività redditizie e a basso assorbimento di capitale come asset e wealth management e cercare, una volta per tutte, di integrare l’attività al dettaglio della banca commerciale con il network di PostBank. Tutto molto bello, ma tutto molto costoso: tra il 2015 e il 2018 Deutsche Bank aveva richiesto al mercato 19 miliardi di nuovo capitale azionario, 8 durante il mandato di John Cryan.

Dopo l’uscita di Cryan, nel luglio del 2019 Christian Sewing, uomo che tra l’altro durante la sua carriera aveva maturato esperienza dirigendo la funzione di Audit, accelerò ulteriormente la ristrutturazione dove il predecessore si era fermato: ridurre la base dei costi con un calo di 18mila dipendenti, ridimensionamento dell’attività di investment banking con l’uscita dall’attività di equity trade e sale e una riduzione delle stesse attività sui mercati obbligazionari, il potenziamento delle attività di private banking e asset management, l’integrazione con Postbank e la creazione di una capital release unit destinata a gestire circa 290 miliardi di attivi illiquidi. Da ultimo, una decisa spinta al miglioramento dei meccanismi di governance, risk management, compliance e antiriciclaggio (anti-money laundering), le spine nel fianco della banca da prima dell’arrivo di John Cryan.

Nello spazio di meno di 10 anni, è davvero istruttivo potere comparare due casi che richiamano facilmente l’uno l’altro. Si diceva che spesso la storia si ripete, ma che la storia dovrebbe anche insegnare qualcosa. Che conclusioni ci offrono i due casi?

1 L’integrazione tra banca commerciale (la Swiss Bank per Credit Suisse, l’originale Deusche Bank, la banca del mittelstand e delle grandi imprese multinazionali) e l’investment banking crea banche in grado di essere un punto unico di contatto con la clientela, una realtà diversificata sul fronte dei ricavi, ma anche un’entità difficile da gestire e con culture aziendali profondamente diverse.

2 I grandi conglomerati sono entità in cui il rischio va controllato in modo capillare, non per soffocare il business ma per dare al business le utili linee guida per uno sviluppo organico e controllato. Rischi, compliance e audit sono spesso viste come funzioni pesanti, di intralcio al business e costose. Se ne sottovaluta il ruolo di interlocutore critico nei confronti del business, per non parlare della loro funzione di certificazione di qualità dei processi nei confronti dei Regolatori.

3 L’espansione in aree di business troppo diverse rischia di realizzare allocazioni di risorse non ottimali. Imperi troppo grandi sono difficili da governare, come diceva l’imperatore Adriano.

4 Talvolta, osservare i propri competitor nel loro processo di ristrutturazione è utile per evitare errori e per trarre spunti di miglioramento. Il terzo trimestre 2022 di Deutsche Bank è il migliore dal 2006 dopo anni di transizione verso gli obiettivi del piano strategico disegnato da Christian Sewing. Un auspicio per Credit Suisse.

5 La memoria dell’uomo (e quella dei manager) è purtroppo,
spesso, troppo corta.

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