Criptovalute

Le criptovalute sono energivore? Quanta energia serve per produrle e per gestirle?

di Pierangelo Soldavini

(vectorfusionart - stock.adobe.com)

1' di lettura

Sulla blockchain le transazioni vengono certificate in maniera automatica, senza l’intervento di intermediari. Nel caso di bitcoin la certificazione avviene attraverso il lavoro – per questo si dice “proof of work” – dei miners, che altro non sono che potenti data center che mettono in campo enormi capacità computazionali per risolvere prima degli altri il problema crittografico che permette di agganciare il blocco alla blockchain e ricevere la remunerazione in bitcoin.

Queste macchine lavorano in continua e consumano energia sia per il funzionamento che per il raffreddamento: non a caso vengono installate in paesi freddi e a energia conveniente. Il sistema di bitcoin arriva a consumare quanto un paese di medie dimensioni come la Svezia o la Svizzera.

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Di fronte all’impatto ambientale conseguente allo sviluppo del sistema, si sta accelerando una transizione energetica verso fonti rinnovabili.

Intanto si vanno diffondendo anche sistema di consenso sulla blockchain diverse dal proof of work, che possano essere meno energivore e quindi più sostenibili. In particolare Ethereum ha compiuto a metà settembre 2022 la transizione verso un protocollo basato su “proof of stake”, vale a dire sul consenso prestato dai possessori di valute che le mettono in staking, a disposizione per questo utilizzo.

In questo modo la criptovaluta numero due, la piattaforma che abilita lo sviluppo di smart contract, stablecoin e finanza decentralizzata, ha praticamente azzerato il consumo energetico. Candidandosi come alternativa a bitcoin.

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