Le cronache dal fronte dei conflitti ambientali
A Barcellona per conoscere EJAtlas, l'Atlante di giustizia ambientale che monitora e cartografa i conflitti ambientali nel mondo: sulla mappa interattiva scorrono 3.125 casi, ognuno documentato con schede, foto, fonti, dati
di Fabio Bozzato
2' di lettura
«Siamo come quegli amanuensi che arrivavano dopo le battaglie. Come loro, ricostruiamo gli eventi e i protagonisti. E ogni volta scriviamo una pagina di storia sociale recente». A parlare è Joan Martínez Alier, 81 anni, economista, decano dell'Istituto di Scienza e Tecnologia Ambientale all'Università Autonoma di Barcellona. E quello che racconta è il suo EJAtlas, l'Atlante di giustizia ambientale che monitora e cartografa i conflitti ambientali nel mondo. Lo dirige assieme alla canadese Leah Temper e le attività sono coordinate dall'italiana Daniela Del Bene, all'interno dell'ateneo catalano.
Sulla mappa interattiva dell'Atlante (ejatlas.org) scorrono ormai 3.125 casi, ognuno documentato con schede, foto, fonti, dati. E i protagonisti? Da una parte imprese, pubbliche o private, di solito estrattive, e dall'altra le comunità locali, soffocate dall'inquinamento, avvelenate, esposte a frane, esplosioni, esodi. L'Atlas ne è un grande narratore. Un mappamondo di ecologia politica comparata. «Il fatto è che il sistema economico globale resta materiale, fatto di petrolio, carbone, oro, rame, coltan», ci racconta Martínez Alier. «Se hai grandi capitali e vuoi investire, ti conviene scavare ed estrarre. Quello dell'economia smaterializzata è per ora un racconto, anche un po' mistificante». Per capire l'economia «c'è bisogno di merceologi, più che di economisti», sorride il professore ricordando l'esempio di Giorgio Nebbia.
E così si scopre che l'Atlante viene consultato non solo da ricercatori, attivisti, istituzioni, ma adocchiato anche dai colossi dei capitali che sono i Fondi sovrani o di investimento, per capire su che cosa puntare e prepararsi a conflitti ecologici e sociali. L'Atlante ha preso vita nel 2014, grazie a un progetto di ricerca europeo. Allora i ricercatori avevano sul tavolo 920 casi. Oggi quello che viene alla luce è un pullulare di vertenze «che si possono stimare in decine di migliaia».
Le dinamiche sono molto simili ovunque, e lo sono persino le richieste o le parole d'ordine. In alcune situazioni ci si può sedere attorno a un tavolo, ma in altre, come le vertenze sulle miniere di carbone del Gare Pelma, lo scontro è violento. In 375 casi (il 12 per cento delle volte) si riporta l'uccisione di uno o più attivisti. Poi ci sono i conflitti seriali, come con la Pan American Silver, dal Messico alla Patagonia. C'è chi aveva giurato in un green washing, ma è finito travolto: la più grande produttrice di ferro e nichel al mondo, la brasiliana Vale, nel giro di quattro anni ha visto due dighe crollare e centinaia di affogati in residui tossici nel Minas Gerais. Altre, come la Chevron-Texaco in Ecuador o la Shell nel delta del Niger, non hanno rispettato le compensazioni pattuite. Ora i ricercatori osservano l'Artico, la nuova frontiera degli affari minerari, la più difficile da radiografare per l'opacità delle norme internazionali e la dispersione di chi ci vive. «L'economia industriale ha un appetito vorace. Non è circolare, ma entropica, divora», ripete il professore. «C'è bisogno di un nuovo paradigma».
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