Le donne scalano i cda delle quotate: centrato l’obiettivo 33,5%
di Francesca Barbieri
3' di lettura
Ci sono voluti cinque anni, ma alla fine l’obiettivo è stato centrato e superato: il 33,5% delle poltrone dei consigli di amministrazione delle 237 società quotate in Borsa al mercato telematico è occupato da una donna. Complice anche il maxi-rinnovo dei board di ben 64 società nel 2017, oggi le quote rosa di un terzo fissate dalla legge Golfo-Mosca nei Cda possono dirsi rispettate.
Un traguardo che ci colloca tra i Paesi più virtuosi in Europa, insieme a Norvegia, Francia e Svezia. Le quote italiane, va detto subito, sono temporanee e graduali, fissate al 20% per la prima elezione successiva all’agosto 2012 e al 33% per le due seguenti.
Si applicano non solo ai consigli di amministrazione, ma anche ai collegi sindacali. Non solo alle società quotate, ma anche a quelle a controllo pubblico.
Dai risultati di una ricerca di Cerved per la Fondazione Maria Bellisario - che sarà presentata dopodomani al Senato - sono 751 le donne che a fine 2017 risultavano nei Cda delle società quotate alla Borsa di Milano, su un totale di 2.244 componenti. L’aumento è stato del 9,3% rispetto al 2016, con una presenza quadruplicata sul 2011, anno in cui le norme sulla rappresentanza di genere erano appena state varate.
La presenza femminile è in percentuale più alta nei collegi sindacali con 489 donne su 1.215 sindaci, l’equivalene del 40,2 per cento. In generale, poi, le donne sono più giovani rispetto ai pari grado maschi: 52 anni contro 59 nei Cda, 51 contro 54 nei collegi sindacali.
«La legge è stata un successo e ha trovato ampia applicazione - commenta Marco Nespolo, amministratore delegato di Cerved -. Per avere un risultato profondo nel tessuto economico del Paese e per promuovere una maggiore presenza femminile anche negli spazi non contemplati dalla legge c’è molto da lavorare. Le imprese, ad esempio, possono utilizzare di più e meglio la tecnologia e lo smart working per favorire percorsi di carriera femminili più rapidi».
Dietro i dati medi si nascondono infatti anche situazioni poco virtuose: tre quotate, ad esempio, hanno board completamente maschili e in una sessantina di società le donne rappresentano una quota compresa tra il 20 e il 33 per cento. Solo in 26 azienda il numero delle donne è superiore rispetto all’obbligo di legge.
Se consideriamo poi le cariche più importanti - per le quali non esistono norme a tutela della diversità di genere - le statistiche restano imbarazzanti: appena 18 donne rivestono il ruolo di amministratore delegato (nel 7,9% delle società), 23 sono Presidente di Cda e 46 Presidente del collegio sindacale.
Nel settore pubblico le quote rose si applicano dal 2013 nelle società controllate dalla Pa. Anche in questo ambito l’effetto positivo c’è stato, con un aumento di 660 donne nei ruoli di rilievo di consigli di amministrazione (26,2%) e collegi sindacali (18,2%) Ma anche qui non mancano i margini di miglioramento, soprattutto nelle Regioni del Sud, in cui le donne al vertice occupano meno di un quinto delle cariche. Maglia nera è la Basilicata (9,7%) distante anni luce dal virtuoso Friuli Venezia Giulia (31,1 per cento).
«Servono più donne nei ruoli esecutivi - commenta Lella Golfo, presidente della Fondazione Bellisario - e, prima che la legge scada, dobbiamo amplificarne l’effetto di contagio sull’intero sistema economico. Avere più donne ai vertici significa traghettare il Paese verso un orizzonte di crescita, benessere e modernità».
Un effetto contagio per ora limitato, stando al focus realizzato da Cerved sulle società che non hanno specifici “diktat” sulla parità di genere. Le quote rosa, pur in miglioramento, sono comunque a livelli più bassi, al 17,4% (rispetto al 13,8% del 2011). Si tratta di 9mila donne su 53mila amministratori di società non finanziarie italiane che negli ultimi dieci anni hanno realizzato un fatturato superiore a 10 milioni di euro (circa 14mila). Un effetto traino più evidente si registra tra le società che fatturano oltre 200 milioni di euro: quelle in regola con le quota rosa risultano infatti raddoppiate dal 2012 al 2017, passando dal 12% al 21,5% del totale.
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