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Le imposte sui servizi digitali tra discordia e un futuro da scrivere

Mentre Ocse e Onu continuano a dibattere su quale organizzazione debba avere la leadership in tema di fiscalità internazionale, appare sempre più evidente che, nonostante l’entrata in vigore della global minimum tax a partire dal prossimo anno, le speranze che lo stesso accada per la convenzione multilaterale per la riallocazione degli utili delle grandi multinazionali sono ormai ai minimi. Ciò apre la strada a una possibile riconsiderazione
delle digital service taxes a livello globale.

di Raffaele Russo

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4' di lettura

Mentre Ocse e Onu continuano a dibattere su quale organizzazione debba avere la leadership in tema di fiscalità internazionale, appare sempre più evidente che, nonostante l’entrata in vigore della global minimum tax a partire dal prossimo anno, le speranze che lo stesso accada per la convenzione multilaterale per la riallocazione degli utili delle grandi multinazionali sono ormai ai minimi. Ciò apre la strada a una possibile riconsiderazione
delle digital service taxes a livello globale.

Lo spaccato che si è creato tra il Governo e il Congresso negli Stati Uniti – con accuse ormai dirette e molteplici richieste da parte di Senatori e Deputati americani di definanziare l’Ocse – l’assenza di una presa di posizione della Cina, e le recenti decisioni di Paesi come Canada e Nuova Zelanda che nelle scorse settimane hanno annunciato l’introduzione (soggetta a condizione sospensiva) di digital service taxes, sono solo alcuni degli elementi che alimentano un senso di pessimismo riguardo all’entrata in vigore in tempi rapidi della Convenzione Multilaterale.

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Pessimismo che è al netto di giudizi di merito in relazione ai contenuti della Convenzione Multilaterale ed di un’analisi costi-benefici che, a parere di chi scrive, suggerirebbero comunque una soluzione diversa da quella alla quale si è lavorato negli ultimi anni. L’esperienza dei Paesi che hanno introdotto digital service taxes sembra essere unanimemente positiva, sia dal punto di vista del gettito generato, che da quello delle difficoltà di carattere operativo. Il Regno Unito, nel primo periodo di applicazione 2020–21, ha incassato più di quanto previsto, la Francia è passata dai 358 milioni del 2021 ai 518 del 2022, fino ai 670 del 2023. L’Italia è passata dai 240 milioni del 2021 ai 298 milioni del 2022, fino ai 390 milioni del 2023. La Spagna è passata da 166 milioni del 2021 ai 278 milioni del 2022. L’introduzione dei nuovi criteri di allocazione del reddito imponibile delle più grandi multinazionali (si applicherebbero solo a quelle con fatturato superiore ai 20 miliardi di euro) contenuti nella Convenzione multilaterale porterebbe secondo molti a risultati di gettito analoghi, se non inferiori, rispetto a quelli derivanti dalle digital service taxes.

Urge però fare chiarezza sul concetto e sulla ratio delle digital service taxes, anche per evitare che dietro quel nome si nascondano politiche fiscali prive di una solida giustificazione economica. Tale chiarezza dovrebbe essere alla base del design di tali tributi, favorendo il più possibile un approccio coordinato, con l’obiettivo
di giungere in tempi rapidi alla definizione di un common approach come nel caso delle regole sugli ibridi e sulle deducibilità degli interessi del progetto BEPS e della Global Minimum Tax (regole che gli Stati non sono obbligati ad adottare tali regole ma, se scelgono di farlo, devono adottarle ed attuarle in base a quanto definito a livello multilaterale).

A tali fini l’esperienza italiana potrà essere utile a livello globale. La DST italiana infatti trova la sua ratio non nella necessità di adottare un meccanismo correttivo (e temporaneo) al mancato pagamento delle imposte sui redditi dei contribuenti interessati, quanto piuttosto nella volontà di attrarre a tassazione l’estrazione di valore dal territorio dello Stato che avviene attraverso l’immagazzinamento, la lavorazione e lo sfruttamento dei dati che gli utilizzatori mettono a disposizione sul web in cambio di servizi digitali teoricamente gratuiti. Questo tratto distintivo emerge chiaramente dalla relazione illustrativa al provvedimento che ha introdotto la digital service tax, quando afferma che i contributi forniti dai propri utenti a imprese che esercitano attività digitali di fatto alimentano la creazione di valore per l’impresa stessa. Detti contributi spesso provengono da uno Stato in cui l’impresa medesima non è ivi stabilita e, in ogni caso, gli stessi possono essere “monetizzati” in tempi, luoghi e forme distanti dalla giurisdizione nella quale l’utente ha fornito il proprio contributo. La misura pertanto utilizza i ricavi derivanti da tali servizi come criterio per identificare, ai fini tributari, il valore creato dalla partecipazione degli utenti. Tuttavia, ciò non toglie che in futuro il valore di tali contributi possa essere determinato con maggiore precisione, rendendo superflua la necessità di utilizzare i ricavi come “proxy”.

Siccome è più che plausibile che nei prossimi anni assisteremo ad una proliferazione di digital service tax, le implicazioni di questa necessaria (e spesso assente) chiarezza sono evidenti. Difatti o la Convenzione Multilaterale entra in vigore in tempi rapidi, ivi comprese le clausole con le quali le Parti si impegnano ad abolire le proprie digital service taxes che hanno determinate caratteristiche (le cd. clausole di rollback), oppure non si trova un accordo e termina anche il periodo di standstill (l’impegno a non introdurre nuove digital service taxes). Ciò in quanto nell’ipotesi di entrata in vigore della convenzione multilaterale, i criteri per l’identificazione delle digital service taxes da abolire includono: (i) la tassazione in base a criteri di mercato; (ii) l’applicazione alle imprese straniere; e (iii) l’esclusione dalla qualifica di imposte sul reddito coperte dai trattati contro la doppia imposizione.

Pertanto, anche a fronte della entrata in vigore della Convenzione multilaterale, le digital service taxes con determinate caratteristiche potranno continuare ad applicarsi. La decisione a tal riguardo verrà presa dalla Conferenza delle Parti della Convenzione. Nel caso in cui invece la Convenzione non veda la luce, la discussione dovrà riprendere con le autorità degli Stati Uniti, anche alla luce dei dati più recenti che dimostrano il carattere non discriminatorio dell’imposta. Possiamo infatti apprendere dalla risposta del Mef ad una recente interrogazione parlamentare che, tra i contribuenti che hanno versato l’imposta sui servizi digitali, nel 2021 vi sono 59 soggetti dichiaranti residenti in Italia mentre gli altri principali paesi di provenienza sono gli Stati Uniti (45), l’Irlanda (16), la Germania (15), il Regno Unito (14), la Francia (10), i Paesi Bassi (10), Singapore (10) e l’Australia (8). Tali dati evidenziano che l’imposta potrebbe non essere affatto discriminatoria.

Anche nell’interesse dei Paesi in via di sviluppo che sicuramente non hanno ad oggi le capacità per amministrare un sistema quale quello previsto dalla Convenzione multilaterale, sarebbe pertanto opportuno riflettere a livello multilaterale su come standardizzare l’ambito soggettivo ed oggettivo dell’imposta, sull’identificazione di un range di aliquote applicabili, su meccanismi per evitare un doppio prelievo, su come effettuare verifiche congiunte, e infine su come assicurare l’enforcement aldilà dei propri confini ove necessario. Tali riflessioni potranno tornare utili in un futuro non troppo lontano.

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