Le incertezze per l’economia cinese nell’anno della tigre
Nel 2020, anno di recessione per quasi tutti i paesi, la Cina è cresciuta di un invidiabile 2,3% e nel 2021 il suo Pil è aumentato dell'8,1%, ben sopra la media del periodo pre-Covid. Per il 2022 è atteso però un rallentamento
di Marcello Minenna
I punti chiave
10' di lettura
Mentre gli occhi del mondo sono puntati sul conflitto russo-ucraino, continuano gli sforzi della Cina per promuovere un ambiente economico stabile e sano in vista del 20° Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese (PCC) in agenda per l'ultimo trimestre 2022. La ricorrenza è importante e per l'occasione Xi Jinping dovrà dimostrare di avere le carte in regola per ottenere il terzo mandato come Presidente della Repubblica Popolare.
L'ultimo biennio è stato archiviato con ampio successo. Nel 2020 - un anno di recessione per quasi tutti i paesi - la Cina è cresciuta di un invidiabile 2,3% e nel 2021 il suo PIL è aumentato dell'8,1%, ben sopra la media del periodo pre-Covid.
Per il 2022 è atteso però un rallentamento. I segnali sono ravvisabili nel trend discendente del dato sulla crescita trimestrale dell'anno scorso: +18,3% annuo nel primo trimestre, +7,9% nel secondo, +4,9% nel terzo e +4% nel quarto. Per quest'anno il consensus degli analisti si colloca intorno al 5%, col Fondo Monetario Internazionale che a gennaio ha rivisto al ribasso le sue stime portandole a +4,8% contro il +5,6% previsto lo scorso ottobre.
L'ottima performance del 2021 è in larga parte figlia di un rimbalzo nell'attività economica globale - soprattutto dal lato della domanda - che la Cina ha saputo cavalcare abilmente con la propria strategia di espansione commerciale, come dimostra il record storico del surplus commerciale: 676,4 miliardi di $.
Di fronte a cifre così astronomiche una decelerazione è quasi inevitabile. Già da dicembre le prime linee del Ministero del Commercio hanno cominciato a dichiarare di attendersi un calo dell'export per il 2022 a causa della contrazione nella domanda estera, dei problemi nelle catene di approvvigionamento (supply chains), delle persistenti incertezze sull'evoluzione della pandemia e delle tensioni geo-politiche.
Il calo strutturale del surplus delle partite correnti
Ma c'è di più. Dopo lo scoppio della crisi finanziaria globale, il peso del commercio nell'economia cinese si è strutturalmente ridimensionato. Il fenomeno è evidente esaminando l'andamento del saldo delle partite correnti e delle esportazioni in percentuale del PIL da inizio secolo (vedi Figura 1). Il saldo corrente, che nel 2007 aveva raggiunto il 10% del PIL, ha subìto una grossa flessione nel 2008-2009; da allora ha oscillato sotto il 5% seguendo un sentiero essenzialmente discendente, ad eccezione del rimbalzo verificatosi nell'ultimo biennio per le condizioni straordinarie legate alla pandemia.
Discorso analogo vale per le esportazioni: nel periodo 2000-2008, l'export cinese è stato mediamente pari al 28% del PIL, con picchi del 35% negli anni immediatamente prima della crisi finanziaria internazionale. Dopo la brusca frenata del 2009 e il rimbalzo (fisiologico) dell'anno successivo, il rapporto export/PIL ha imboccato un percorso di decrescita che lo ha portato stabilmente sotto il 20%. Persino nel 2021 - nonostante un recupero dell'1,6% rispetto al primo anno di pandemia - si è mantenuto sotto tale valore.
Queste dinamiche sono la conseguenza di una commistione di diversi fattori, tra cui il mutato atteggiamento degli Stati Uniti e di altri paesi nei confronti della macchina produttiva e commerciale cinese dopo il 2010.
Le tensioni con gli Usa…
Gli Usa - come noto - sono il primo mercato di sbocco dell'export cinese, con un deficit commerciale verso il gigante asiatico di quasi 400 miliardi di $ nel 2021 (vedi Figura 2). Di recente Washington ha reso noto che il governo di Pechino non ha rispettato gli impegni presi nell'ambito della Fase 1 dell'accordo commerciale sino-statunitense raggiunto a inizio 2020, quando Trump decise di accantonare la guerra dei dazi.
Gli impegni in questione prevedevano che nel biennio 2020-2021 le importazioni cinesi di alcuni prodotti e servizi statunitensi (tra cui beni agricoli, manufatti e prodotti energetici) superassero di almeno 200 miliardi di $ i livelli base riferiti al 2017, per un totale di 502,4 miliardi di $. Le effettive importazioni cinesi dei beni e servizi individuati dall'accordo sarebbero state invece pari al 57% di quanto promesso, con picchi dell'80% per i beni agricoli.Si attende ora di vedere se e come risponderà Biden. Un ritorno alla guerra dei dazi appare poco probabile, tenuto conto che alcuni settori dell'economia americana, come quello agricolo, hanno beneficiato significativamente dell'incremento della domanda cinese e che vari studi hanno evidenziato come i dazi di Trump abbiano gravato principalmente sui consumatori americani. Allo stesso tempo, tuttavia, diversi ambienti economici e politici stanno esercitando pressioni sulla Casa Bianca affinché negozi con la Cina nuovi impegni di acquisto per i prossimi anni.
… e non solo
Accanto ai rapporti commerciali bilaterali con Pechino, Washington è anche impegnata in numerose iniziative volte a contenere la competitività della Cina specie nei settori considerati strategici. Alla base di queste iniziative - come osserva Michael Beckley, Professore di Scienze Politiche alla Tufts University - vi è un sentimento di diffidenza verso la Cina che accomuna gli Stati Uniti a molti altri paesi.
La cooperazione internazionale in chiave anti-cinese include già diversi accordi commerciali e di investimento. Nel 2021 Stati Uniti e Giappone hanno avviato una partnership per la competitività e la resilienza che promuove l'innovazione nelle tecnologie digitali, la ricerca e l'investimento nelle biotecnologie, l'individuazione di fornitori affidabili e la collaborazione su catene di approvvigionamento sensibili, come quella dei semiconduttori. In parallelo, il Giappone ha siglato con Australia e India un'intesa sulle supply chains che offre incentivi alle aziende che spostano le loro attività al di fuori della Cina.
A queste misure su base volontaria se ne sommano altre “stimolate” dagli USA. È il caso delle restrizioni poste da numerosi paesi nei confronti di Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni 5G, ma anche delle mosse finalizzate a rallentare i progressi della Cina nella produzione di chip all'avanguardia inibendole l'accesso alle apparecchiature degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ad esempio, nel 2020 gli Stati Uniti hanno de facto costretto l'olandese ASML, unica azienda al mondo a produrre dei componenti necessari alla fabbricazione dei chip più avanzati, a bloccare la vendita di una macchina alla cinese SMIC.
La «dual circulation strategy»
Gli esempi sono tanti e la lista si allunga in continuazione, tanto che ormai è difficile persino capire quale parte gioca in difesa e quale in attacco. Dal canto suo, infatti, la Cina è consapevole della posta in gioco come mostrato dalla natura e dalla portata delle sue ambiziose progettualità. Alcune di queste - come la Nuova Via della Seta o i crescenti interessi coltivati in Africa - hanno l'obiettivo di assicurarsi un network affidabile di partner commerciali (possibilmente vicini anche geograficamente o comunque facilmente raggiungibili usando infrastrutture finanziate da capitali cinesi) verso cui dirottare il proprio export e da cui approvvigionarsi delle risorse e dei beni necessari al funzionamento della locomotiva cinese.
Se le iniziative appena menzionate puntano a consolidare la leadership della Cina nel commercio internazionale, altre sono invece indirizzate al potenziamento del mercato interno. Pensiamo al mega-progetto della Great Bay Area che intende connettere Hong Kong, Macao e la provincia del Guandong (la più redditizia della Cina continentale) con un ponte di 36 Km per creare un mercato unico che sia all'avanguardia su scala planetaria per capacità di innovazione e sviluppo.
Questi progetti fanno parte della più ampia strategia della doppia circolazione (dual circulation strategy) con cui la Cina - preso atto di un clima esterno sempre meno favorevole - intende riorientare la propria economia verso l'interno (circolazione interna) senza comunque rinunciare agli investimenti e scambi internazionali (circolazione esterna). Formalizzata dal Politburo del PCC ad aprile del 2020, dopo che l'esperienza del Covid aveva costretto a volgere lo sguardo al mercato domestico, la dual circulation strategy dovrebbe rendere prioritari i consumi domestici come driver di crescita con la doppia finalità di accrescere l'auto-sufficienza economica della Cina e di realizzare la prosperità comune del suo popolo.
La debolezza della domanda interna
Tuttavia, a quasi due anni dall'annuncio della nuova strategia, i progressi concreti verso la “circolazione interna” sono stati pochi. Dopo la fiammata registrata nella prima parte del 2021, il recupero dei consumi privati ha perso tono come indicato dal rallentamento nella crescita della spesa reale pro-capite negli ultimi trimestri del 2021 (cfr. Figura 3). Deludente anche il dato delle vendite al dettaglio che lo scorso dicembre erano aumentate di appena l'1,7% rispetto allo stesso periodo del 2020.
Senza dubbio il rallentamento in questione è stato influenzato dai problemi dal lato dell'offerta globale (ad esempio nel settore automobilistico) emersi durante il 2021 come pure dalla riduzione dello stimolo creditizio da parte delle autorità monetarie cinesi. Ma è anche sintomatico della difficoltà di realizzare - per lo meno in tempi brevi - un boost stabile dei consumi da parte di una popolazione che continua a percepire salari relativamente bassi ed è ancora molto distante dall'avere esigenze di spesa tipiche di un'economia matura. Nel 2020 il Primo ministro Li Keqiang ha dichiarato che il reddito disponibile annuo pro-capite è di 4.200 $ e che 600 milioni di persone vivono con un reddito mensile di appena 140 $.
La debolezza dei consumi si accompagna a un declino, seppur fisiologico, nel ritmo di crescita degli investimenti. Infatti, fermo restando che in termini assoluti la spesa per investimenti rimane elevata sia nel settore pubblico che in quello privato, uno sguardo all'andamento di lungo periodo rivela un pattern discendente. Tra il 2007 e il 2020 gli investimenti in infrastrutture sono scesi dal 12 al 6 per cento del PIL e il loro tasso di crescita annuo è passato dal 13,6 al 5,8 per cento. Più in generale, la spesa per la formazione di capitale fisso - che fino al 2007 aveva registrato tassi di crescita tra il 15 e il 23 per cento - dal 2013 sale sempre più lentamente ed ha chiuso il 2020 con un magro 2,7%. Si potrebbe obiettare che il 2020 non è un anno rappresentativo a causa della pandemia, ma in realtà anche le statistiche del 2021 mostrano un quadro per lo meno contrastato (vedi Figura 4). L'anno scorso gli investimenti in capitale fisso sono cresciuti del 4,9% (del 7% quelli del settore privato), ma il focus sui dati mensili rivela una netta parabola discendente che dal 35% di inizio anno cala continuamente portandosi sotto il 5 per cento.
Nella prima metà del 2021 c'è stato, infatti, un effetto-rimbalzo dallo shock pandemico al quale nel secondo semestre è seguita una progressiva frenata legata alla riduzione dello stimolo creditizio e allo scoppio della crisi immobiliare innescato dal tentativo di Pechino di arrestare la speculazione in un settore che rappresenta il 29% del PIL.
Crisi immobiliare e finanza locale
Come noto, il boom immobiliare in Cina è stato finanziato – oltre che da capitali esteri – dall'aumento esponenziale del debito settore non finanziario contribuendo massicciamente a portare il leverage complessivo del paese intorno al 280% del PIL. Per contenere l'indebitamento dei developers e dirottare il credito verso altri settori strategici (come quello tecnologico) l'anno scorso il governo ha adottato la policy delle «tre linee rosse», che stabilisce delle soglie per tre rapporti finanziari di alcune grandi società immobiliari.
Il caso Evergrande e il contagio all'intero comparto del real estate e ad altre aree strategiche dell'economia cinese hanno però rivelato quanto fossero velleitarie le intenzioni di Pechino. Nel giro di pochi mesi molti dei nomi più importanti dell'immobiliare cinese (come Country Garden, Sunac o Logan) hanno bruciato miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato e i prezzi delle loro obbligazioni sono crollati arrivando in alcuni casi a quotazioni da default.
Dall'immobiliare i problemi si sono rapidamente propagati alle finanze dei governi locali che fanno ampio affidamento sui proventi delle aste dei terreni per rimpinguare le loro casse. In Cina la terra è del popolo (cioè pubblica) e le aste riguardano l'assegnazione temporanea dei terreni per periodi relativamente lunghi. Tra giugno e settembre 2021 la percentuale di lotti invenduti nelle aste dei governi locali è quasi triplicata (dal 10 al 27 per cento) e la situazione non è migliorata nei mesi seguenti. Una ricerca su un campione di 300 città ha rivelato che nel 2021 le entrate fondiarie dei governi locali sono calate del 7%, il dato più basso dal 2014, creando problemi di bilancio ai governi locali, principale fonte di finanziamento della spesa pubblica e anche loro gravati da una montagna di debiti.
Dal 2010 in avanti il debito pubblico locale ha sistematicamente sopravanzato quello del governo centrale (vedi Figura 5) e ha ormai superato il 25% del PIL, con un controvalore di quasi 5.000 miliardi di $.
Peraltro questo è “solo” il debito esplicito dei governi locali, al quale va aggiunto il più copioso debito implicito o nascosto (hidden debt) che è stato acceso principalmente da veicoli finanziari (cosiddetti Local Government Financing Vehicles) nati apposta per aggirare le restrizioni sui prestiti dei governi locali e proliferati dopo la crisi finanziaria globale. Stime di Nomura per il 2020 indicano che il valore complessivo del debito implicito delle amministrazioni locali cinesi sarebbe pari a 7.000 miliardi di $. Ciò significa che le passività totali dei governi locali (implicite + esplicite) si aggirano sui 12.000 miliardi di $; sommando gli ulteriori 3.600 miliardi $ di debiti del governo centrale, si arriva a 15.600 miliardi di $ di debito pubblico totale, approssimativamente pari all'87% del PIL.
Durante il 2021, mentre gli introiti delle aste fondiarie diminuivano, i governi locali hanno incontrato crescenti difficoltà nel collocare le loro obbligazioni sul mercato per via del progressivo deterioramento della fiducia degli investitori domestici e della riduzione dello stimolo monetario da parte della banca centrale.
La retromarcia di Pechino
Di fronte al rischio concreto di una voragine nei bilanci delle amministrazioni locali e ai persistenti problemi nel settore immobiliare, dall'autunno scorso il governo cinese ha dovuto fare retromarcia sulla stretta creditizia. L'offerta di moneta ha ripreso a crescere a ritmi più sostenuti e, con essa, anche l'impulso creditizio all'economia.
Il sostegno monetario continua tuttora, come dimostra la recente iniezione di liquidità da parte della banca centrale che a fine febbraio ha iniettato nel sistema quasi 46 miliardi di $. Nel frattempo sono state annunciate nuove misure di supporto alla domanda interna sia attraverso un allentamento dei vincoli regolamentari sull'indebitamento che nella forma di una riduzione del prelievo fiscale sulle aziende, specie quelle di piccole dimensioni.Con il picco di volatilità sui mercati globali scatenato dal terribile conflitto in Ucraina, è probabile che Pechino proseguirà ob torto collo su questa strada. Del resto, per quanto cerchi di tenere un basso profilo sul piano politico, anche la Cina dovrà fare i conti coi risvolti economici del conflitto e potrebbe decidere di posticipare a tempi meno incerti l'inevitabile redde rationem sull'enorme leva finanziaria della sua economia.
Nel breve periodo potrebbero non esserci grosse difficoltà, tenuto conto che anche l'Occidente potrebbe optare per un rinvio (o quanto meno un rallentamento) nel ritiro degli stimoli fiscali e monetari, cosa che garantirebbe alla Cina la possibilità di attingere a una domanda estera ancora relativamente abbondante. Su un orizzonte temporale più lungo sarà invece interessante capire come il gigante asiatico affronterà le sfide interne ed esterne che lo separano dalla piena transizione ad un'economia avanzata e con minori squilibri.
Marcello Minenna, Direttore generale dell'Agenzia delle Dogane e Monopoli
@MarcelloMinenna
Le opinioni espresse sono strettamente personali
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