Le «obbligazioni catastrofe» verranno travolte dai cambiamenti climatici?
di Enrico Marro
4' di lettura
Si chiamano catastrophe bond (detti anche “cat bond”) e sono strumenti finanziari nati oltre vent’anni fa per scommettere contro le catastrofi naturali. Nell’ultimo decennio hanno conosciuto una grande fortuna: dal 2004 il valore dei “cat” in circolazione è quintuplicato, passando dai 5 miliardi di dollari di allora ai 25 miliardi attuali (mentre il 2017 ha segnato l’ennesimo record, con nuove emissioni a quota 9,14 miliardi di dollari). Circa metà dei fondi pensione europei o statunitensi hanno in portafoglio delle “obbligazioni catastrofe”, sdoganate quattro anni fa anche da grandi istituzioni mondiali come la World Bank. Ai mercati piacciono, perché sono decorrelate dalle Borse: l’eventualità che il fallimento di Lehman Brothers si verifichi nello stesso momento della distruzione di Pompei da parte del Vesuvio è un evento statisticamente improbabile.
Il problema semmai è che il cambiamento climatico, purtroppo, non è più un’opinione. E sta costando caro alle compagnie di assicurazioni che emettono le “obbligazioni catastrofe”. Il colosso delle riassicurazioni Swiss Re, per esempio, ha chiuso il bilancio 2017 con un crollo dell’utile (da 3,6 miliardi a 331 milioni di dollari) proprio per il moltiplicarsi delle catastrofi naturali. Dagli uragani Harvey, Maria e Irma che hanno devastato Caraibi e Stati Uniti al ciclone Debbie in Australia: secondo la società svizzera, solo i costi legati al maltempo hanno pesato sul bilancio per 4,7 miliardi di dollari, ai quali si aggiungono quelli degli incendi negli Stati Uniti (almeno 400 milioni di dollari) e dei terremoti in Messico.
Ha quindi senso acquistare ancora dei “cat bond” quando eventi climatici estremi sono diventati la regola e non l’eccezione? Prima di rispondere vediamo quali sono le caratteristiche di questi strumenti finanziari.
Come funzionano. I “cat bond” sono obbligazioni emesse da compagnie di assicurazione e riassicurazione che trasferiscono al mercato dei capitali i loro “rischi di punta” dovuti alle super-catastrofi, quelle con scarse probabilità di verificarsi ma che potrebbero causare danni enormi. Di solito hanno una durata compresa fra uno e tre anni. Finché i disastri naturali coperti dall’emissione non si verificano, gli investitori ricevono gli interessi e a scadenza il rimborso del capitale. Se, invece, si verifica la super-catastrofe, gli investitori possono potenzialmente non vedersi rimborsare in tutto o in parte il capitale. Ma agli istituzionali dei fondi pensione (che a questo tipo di obbligazioni destinano una piccola parte del portafoglio) ciò che interessa è che le catastrofi dei “cat” siano slegate da quelle del mercato, nel nome della diversificazione.
Il rischio default. Quando si parla di super-catastrofe, si intende quella che avviene a occhio e croce ogni cinquant’anni. Perfino l’uragano Sandy, che ha nel 2012 ha causato 70 miliardi di dollari di danni alla East Coast americana, non ha sfiorato i possessori delle “obbligazioni catastrofe”. E dal 1990 a oggi, la quasi totalità dei “cat” è arrivata a scadenza senza subire perdite. Però va ricordato che il rischio è di non rivedere il capitale, se arriva un Cigno Nero degno di questo nome. Come sanno bene gli sfortunati possessori dei pochi “cat bond” finiti in default, sotto i colpi per esempio dell’uragano Katrina del 2005 o del terremoto giapponese del 2011 che portò al disastro di Fukushima.
Il climate change ucciderà quindi le “obbligazioni catastrofe”? Molto probabilmente no, spiega Taos Fudji di Standard and Poor’s Global Ratings: «A eccezione di un solo “cat bond”, gli uragani Harvey, Irma e Maria non hanno avuto alcun impatto su quelli a cui attribuiamo un rating». La mancanza di downgrade o pagamenti non è tuttavia un’anomalia, perché i catastrophe bond a cui S&P assegna un rating forniscono generalmente una protezione da eventi considerati rari che, si stima, avvengono una volta ogni cinquant’anni o più. Non bisogna inoltre dimenticare che i “natural catastrophe bond” sono collegati soltanto alle perdite risultanti da pericoli direttamente legati al settore assicurativo: «Sebbene le perdite economiche derivanti da ciascun evento siano significative, nel caso dell’uragano Harvey la maggior parte dei danni è stata causata dall’alluvione - sottolinea Fudji - che nell’ambito delle catastrofi naturali non costituisce generalmente un pericolo coperto dagli assicuratori. Mentre la maggior parte dei danni causati dall’uragano Maria si è invece concentrata nei Caraibi, Paese con una percentuale di copertura assicurativa tipicamente molto inferiore rispetto a quella di Stati Uniti o Europa».
La diversificazione aiuta. La selezione di “obbligazioni catastrofe”, che già per conto loro rappresentano una diversificazione di portafoglio rispetto alle normali asset class, va ovviamente effettuata su emissioni diverse per ridurre il rischio. «Nel parlare di “cat bond” si parte spesso dall’assunto che questa tipologia di obbligazioni sia remunerativa solo in assenza di catastrofi - spiega Gregor Gawron, head of insurance linked strategies di Lombard Odier Investment Managers - . Invece il ritorno finanziario di un portafoglio ben diversificato di “cat”, che coprono una serie di rischi indipendenti, è mediamente più alto rispetto alle perdite attese dei bond sottostanti: ciò significa che anche nei momenti in cui si verificano catastrofi, il ritorno per l’investitore, legato all’assunzione del rischio stesso è in media superiore alle perdite». Le “obbligazioni catastrofe” offrono insomma ritorni interessanti a fronte di rischi relativamente contenuti, riassume Joachim Klemen di Credit Suisse. Anche in tempi di climate change.
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