Le ombre di Renzi e Di Maio sul governo Conte bis
Dopo la pazza estate arriva l’autunno caldo? La domanda è legittima se, a pochi giorni dalla nascita del nuovo governo giallorosso, due dei principali esponenti della maggioranza danno già segnali poco incoraggianti: Matteo Renzi e Luigi Di Maio
di Barbara Fiammeri
3' di lettura
Dopo la pazza estate arriva l’autunno caldo? La domanda è legittima se, a pochi giorni dalla nascita del nuovo governo giallorosso, due dei principali esponenti della maggioranza danno già segnali poco incoraggianti. Anche perché non sono proprio due qualunque, Matteo Renzi e Luigi Di Maio: il primo è infatti il protagonista del matrimonio a sorpresa tra Pd e M5s; l’altro è niente di meno che il leader del partito di maggioranza relativa oltre che neo ministro degli Esteri.
Insomma due pesi massimi, che però già scalpitano. Di Maio ha deciso di fare della Farnesina il quartier generale del suo partito. Appena nominato alla guida del dicastero, la scorsa settimana ha infatti pensato bene di convocare lì un vertice con tutti i neoministri pentastellati.
A distanza di una settimana la replica. Stavolta non con i ministri ma con uno staff di “tecnici” rigorosamente M5s, in vista dell’Eurogruppo e dell’Ecofin in programma a Helsinki. Dove però ad essere atteso non è Di Maio bensì il premier Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia, il dem Roberto Gualtieri.
La mossa ha un carattere quindi prevalentemente, se non esclusivamente, politico. Un po’ come aveva fatto Matteo Salvini convocando al Viminale le parti sociali, che negli stessi giorni avevano ricevuto l’invito a Palazzo Chigi dell’allora (ma anche attuale) premier Conte. Con la differenza però non marginale che l’ex ministro dell’interno non era il leader del partito che aveva espresso il premier (il M5s) qual è e qual era invece Di Maio.
Ora sarà anche vero - come fanno notare i pentastellati - che Di Maio il segnale l’ha voluto mandare anzitutto al Pd, di cui Gualtieri fa parte cosi come il neo commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni, ammonendo che sulle scelte di politica economica devono fare i conti con il M5s. Ma perché allora non concentrare la forza su Palazzo Chigi e Conte, come avveniva ai tempi del governo con la Lega? Probabilmente perché al di là delle dichiarazioni di lealtà e gratitudine (di cui in politica bisogna sempre diffidare perché più che altrove vale il proverbio “dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi proteggo io”), Di Maio ha bisogno di riconquistare dentro il Movimento e soprattutto tra gli elettori pentastellati la sua leadership, oggi offuscata proprio dalla grande popolarità del premier, secondo solo al Capo dello Stato. E che deve fronteggiare anche un’altra grana: la possibile scissione del Pd targata Renzi.
L’ex segretario dem non solo non smentisce ma manda a dire che sarebbe un’operazione finalizzata a rafforzare la maggioranza, consentendone l’allargamento a forze ed esponenti centristi, a partire da quei deputati e senatori di area Forza Italia che non vogliono finire fagocitati dal sovranismo salviniano. Renzi è astuto come pochi. E può essere che stia solo alzando l’asticella. Perché è indubbio che la rottura dei gruppi dem indebolirebbe Zingaretti anche se probabilmente verrebbe in parte attenuata dal “ritorno” degli ex scissionisti di Leu a partire dal ministro della Sanità Roberto Speranza. Ma anche per Renzi non è una partita priva di rischi. E il confronto che già si è aperto nel Pd sulla legge elettorale lo conferma. I renziani spingono per il ritorno a un proporzionale puro che gli garantirebbe di giocare autonomamente (stesso ragionamento che fa Berlusconi nei confronti della Lega) mentre Zingaretti e i padri nobili del Pd - da Prodi a Veltroni - non vogliono rinunciare al maggioritario, sia pure riveduto in vista della modifica costituzionale sul taglio dei parlamentari. Una partita destinata a durare e a logorare non solo il Pd. Ecco perché le due ombre che oggi incombono sul secondo governo Conte sono proprio Di Maio e Renzi.
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