Le pagelle della Ue sulla sostenibilità dei debiti sono rischiose
Una Commissione europea pavida che non guarda alla sostanza dei problemi. Questo credo sia il giudizio sintetico che si possa dare sulla proposta di modifica delle regole fiscali europee presentata dopo un parto abbastanza lungo
di Giovanni Tria
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Una Commissione europea pavida che non guarda alla sostanza dei problemi. Questo credo sia il giudizio sintetico che si possa dare sulla proposta di modifica delle regole fiscali europee presentata dopo un parto abbastanza lungo. Manca, infatti, ogni riferimento al nodo centrale della debolezza europea e cioè all’assenza di una “capacità fiscale centrale” e, di conseguenza, della possibilità di una politica fiscale a livello europeo. La conseguenza di questa assenza emerge plasticamente da quel che è avvenuto nel corso della crisi pandemica e da ciò che sta avvenendo oggi con la crisi energetica. Nel corso della pandemia l’unica strada possibile per intervenire a sostegno delle economie bloccate è stata quella di ricorrere alla clausola di sospensione del Patto di stabilità e crescita. In sostanza si è concesso ai singoli Paesi di indebitarsi sul mercato senza limiti. Non c’era altra strada, perché non c’era alcuna possibilità di adottare, nell’immediato, un’azione di sostegno diretto da parte della Ue del tipo Next generation Eu, cioè una possibilità di indebitarsi a condizioni sostenibili tramite debito europeo o con garanzia europea. La conseguenza di questa inabilità ad agire con prontezza è stata che la sospensione delle regole del Psc è stata resa, nella sostanza, praticabile dai vari Paesi solo grazie all’intervento della Bce che ha finanziato la spesa pubblica europea. Perché di questo si è trattato al di là degli escamotage linguistici. In altri termini, la spesa pubblica resa necessaria dalla pandemia è stata finanziata dalla politica monetaria. Ciò non scandalizza affatto chi scrive, ma è chiaro che ciò dovrebbe far pensare i sostenitori dell’intangibilità dei trattati e del mandato vincolato della Bce.
Ma il vero tema è che l’aver delegato alla Bce l’intervento diretto di sostegno alla spesa pubblica dei singoli Stati ha determinato una dilatazione del suo bilancio, creato forse un eccesso di liquidità, e soprattutto generato il problema di come smaltire i titoli pubblici detenuti, al fine di tornare alla normalità.
La conseguenza di un impossibile coordinamento tra politica monetaria e fiscale è stata quindi l’aver creato un condizionamento della politica monetaria futura e il doversi inventare oggi meccanismi di ingegneria istituzionale per trasferire il debito pubblico detenuto dalla Bce in altri contenitori istituzionali, come proposto da vari studiosi.
Ma il vero tema è sempre lo stesso, quello della zoppia europea per la quale esiste una politica monetaria europea e non esiste una politica fiscale, cioè di bilancio, europea. Quel che sta accadendo oggi circa l’incapacità dell’Unione europea di adottare una manovra di bilancio a livello europeo per la stabilizzazione delle economie di tutti gli Stati di fronte allo shock energetico è un altro esempio. Si dirà che ciò dipende non dalla Commissione, ma dai vari governi che non si mettono d’accordo. Ciò è vero.
Ma se non si parte dalla questione centrale, cioè dal nodo centrale di separare ciò che si deve fare a livello europeo, in base a una visione complessiva dell’economia europea e delle sue interdipendenze, e ciò che deve essere fatto dagli stati nazionali, si torna ai soliti contorti meccanismi di controllo delle politiche fiscali dei singoli Stati, negoziando con ciascuno di essi una strategia di rientro dai debiti, che rimane l’unica sostanziale preoccupazione, cercando di renderla realistica e compatibile con la mutevole evoluzione del contesto economico nazionale e con la diversità delle situazioni sia economiche sia debitorie di ciascuno Stato.
Questa sorta di negoziazione bilaterale dei programmi di rientro rischia, d’altra parte, di generare una sorta di contrattazione continua, che implica ancora maggiori burocrazie, con l’opacità che ciò comporta, e una segmentazione implicita tra Stati virtuosi e meno virtuosi. Si pensi solo all’idea di regolare la flessibilità dei piani di rientro, distinguendo tra Stati ad alto debito, medio debito o basso debito. Ciò appare ragionevole e “solidale”, ma non lo è, perché è anche la strada per una continua valutazione sulla sostenibilità dei debiti sovrani. Ricordo che nella trattativa sulla riforma del Mes, e in particolare sulla istituzione del cosiddetto backstop, cioè della rete di sicurezza a sostegno del Fondo di risoluzione unico per la gestione delle crisi bancarie, una delle linee rosse italiane, tracciata non solo dai mutevoli governi italiani, ma indicata anche dalla Banca d’Italia, era il rifiuto di istituzione di un meccanismo di valutazione della sostenibilità dei debiti che avrebbe potuto innescare aspettative pericolose per la stabilità finanziaria dei singoli Stati, generando profezie che si autoavverano. Si combatté per eliminare questa eventualità e la battaglia fu vinta. Ma ora si ha l’impressione che ci sia un tentativo di reintrodurre questo pericoloso meccanismo sotto altra forma. Naturalmente, non tutte le colpe stanno da una parte.
La Commissione riflette le opinioni dei vari governi, anche se con attenzione maggiore per quelli considerati più forti, ma ha anche un potere di proposta che può scegliere di utilizzare per spingere l’asticella delle riforme più in alto o più in basso. Non lo ha fatto e ne prendiamo atto. Aspettiamo l’opinione del governo italiano.
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