Le parole (e i dati) che muovono il dollaro
di Marco Valsania
2' di lettura
Il dollaro sale, volando sulle ali delle parole più calme di Donald Trump ma soprattutto - perché verba, appunto, volant - di dati e pronostici ben più attendibili, quelli sull’inflazione e sulle risposte di politica monetaria in arrivo da parte della Federal Reserve. La divisa americana ha guadagnato lo 0,8% raggiungendo i massimi dall’11 gennaio quando misurata al cospetto di un paniere delle principali divise (ed è salita a 1,052 sull’euro) per il moltiplicarsi delle probabilità di una nuova stretta sui tassi d’interesse telegrafata ai mercati da Janet Yellen e dai suoi colleghi del Fomc già in occasione della loro prossima riunione del 14 e 15 marzo.
Quanto crescenti, queste chance? Raddoppiate, quasi al 70% stando alle piazze future, nel giro di una sola giornata. E triplicate nel giro di un paio di sedute. Difficile, peraltro, scommettere contro due influenti esponenti del board della Fed, William Dudley della sede di New York e John Williams di San Francisco, che nelle stesse ore nelle quali Trump parlava al Congresso e al Paese si sono rivolti ai mercati con un altro, concreto, messaggio: il primo ha dichiarato che le ragioni per un'ulteriore stretta monetaria si sono molto rafforzate, il secondo che questa - un aumento del costo del denaro di un quarto di punto allo 0,75%-1% - sarà in agenda al vertice convocato fra meno di due settimane. Lo sprint di ieri a Wall Street, con il Dow Jones oltre quota 21.000 punti, accanto agli analisti ha forse bisogno di guru della psicanalisi dell’era delle ridotte aspettative per essere spiegato del tutto: gli investitori paiono dar credito a Trump, ai promessi «enormi» sgravi e stimoli fiscali, a loro rischio e pericolo; quasi fossero pronti a passare dalla droga del Qe al più dubbio metadone del nazionalismo economico (seppur depurato dalle offese). Ma l’ascesa del dollaro appare più comprensibile e meglio legata ai fondamentali, alle dinamiche sottostanti. Una di queste è emersa ieri con inedita chiarezza a dar man forte alle prese di posizione di Dudley e Williams. La crescita statunitense sarà oggi ancora sottotono, reduce da un Pil all’1,6% nel 2016 lontano dal 3-4% invocato da Trump, ma l’inflazione sta finalmente mettendo salutari radici e accelerando, lei sì, verso una desiderata normalità, a conti fatti incoraggiante per gli orizzonti dell’espansione. L’indice dei prezzi preferito dalla Fed, il Personal consumption expenditures price index agganciato ai consumi personali, è lievitato in gennaio dello 0,4% e dell’1,9% su base annuale. Un picco significativo: è il livello più alto dall’ottobre 2012 e vicino al target ideale del 2% messo nero su bianco dai governatori della stessa Banca centrale quale criterio essenziale per proseguire negli interventi sui tassi d'interesse. Di più: depurato dalle componenti volatili - quella energetica condizionata dalle oscillazioni del petrolio e quella alimentare - l’indicatore si è comunque attestato a non troppa distanza dall'obiettivo: il mese scorso ha fatto segnare, sempre su base annua, un incremento dell’1,7 per cento. Simili percentuali, almeno oggi, possono più dei miracoli economici e sociali evocati da Trump, anche quando, come martedì notte, prova i panni da statista.
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