Le «parole leggere» che ci fanno vivere nel nostro tempo
di Giuseppe Lupo
3' di lettura
Aveva ragione Lalla Romano a battezzare un suo libro del 1969 “Le parole tra noi leggere”. Quel titolo sovvertiva completamente quanto aveva affermato un decennio prima Carlo Levi, pubblicando “Le parole sono pietre” (1956). Ed era anche un modo per sottolineare la sensazione di levità, l’assenza di peso su cui Italo Calvino avrebbe costruito la sua fortuna di scrittore. Togliere zavorra a ciò che pronunciamo significa restituire a qualsiasi forma di comunicazione la vocazione originaria, che è quella dell’altezza, cioè dello stare in mezzo alle nuvole. Le parole sono leggere ma non superficiali, lasciano il segno anche se non vengono scritte e, quando ci arrivano da una radio in forma di canzoni o di discorsi, vagano indisturbate negli strati dell’aria, lungo quei binari invisibili che sono le frequenze - alte o basse che siano -, su cui si dispongono in fila indiana e marciano una dopo l’altra. È sempre un mistero, quando si parla ai microfoni di un’emittente, immaginare in quali parti di mondo andrà a finire ciò che dici, se sarà recepito da qualcuno, come il messaggio infilato in una bottiglia e affidato all’oceano, o se continuerà a volare fino a perdersi nel niente che avvolge la Terra. Ma anche se il destino dovesse relegare le nostre parole nelle orbite più lontane, anche lì esse potrebbero correre il rischio di imbattersi nelle voci metalliche rimaste dai voli dei primi astronauti a bordo di quelle pioneristiche macchine volanti che si chiamavano Sputnik. Le parole si cercano fra loro, si inseguono, si sposano e in questo enigma senza soluzione sta il fascino della radio: uno strumento più evanescente della televisione, fondato su un’unica risorsa - la voce - che deve raccontare, incuriosire, distrarre, caratterizzare, avvincere, far compagnia... Tutto questo nella forma in apparenza la più naturale possibile, con la ripetitiva quotidianità con cui accogliamo il buongiorno di chi ci è vicino. E anche se a volte capita di non tenere a mente tutto ciò che abbiamo ascoltato durante una trasmissione radiofonica, quando stiamo guidando di notte o mentre ci rilassiamo in poltrona, qualcosa di ciò che abbiamo sentito non finisce nel nulla, qualcosa si salva – un accento particolare, un’espressione inaudita, il vezzo di una sillaba pronunciata con una determinata inflessione dialettale – che assomiglia ai pezzi di legno rimasti a galleggiare sulla superficie dell’acqua dopo una mareggiata. La radio è come ponte tra noi e il tutto che abbiamo intorno: ci annuncia le notizie prima dei giornali, segna le tappe del nostro vivere, conserva il ricordo di quando è stata perfino un veicolo di libertà, come nei decenni delle dittature o, dopo, negli anni Settanta, mentre si moltiplicavano le stazioni libere che trasmettevano brani rock senza confini. Da sempre ascolto la radio nei momenti di vuoto, quando ho bisogno di fare il pieno di risorse. Ma non cerco la musica, piuttosto il récit del nostro tempo: un discorso perseverante, un parlare franco, come quello di Radio24, che oggi, compiendo diciotto anni, taglia il traguardo della maturità. Un parlare di voci e non di suoni. Riconosco nel suo stile il mio trascorrere dentro quest’epoca e nessun’altra, non occorrono che pochi minuti per riposizionare la mia bussola sulla rotta di una labile contemporaneità: sono qui, abito nell’età a cui appartengo, mi nutro dei paradigmi scanditi dal sovrapporsi di accenti e respiri. Quando è il momento di immergersi di nuovo dentro il lavoro, la tentazione è forte. Un guizzo delle mani sposta il pulsante della sintonia e un nastro di termini confusi scivola dai buchi dell’apparecchio. Potrebbe essere l’inferno di Dante, potrebbe essere la Torre di Babele dopo l’intervento di Dio. Ma non è così. Ci sono altri intorno a me, mi dico, non siamo soli.
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