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Le prospettive di risoluzione del conflitto ucraino

Un settore delle scienze umane studia l'evoluzione dei conflitti contemporanei soprattutto per proporre delle soluzioni, indipendentemente da giudizi etici sui buoni e sui cattivi. Nei conflitti, vi è spesso una sfasatura tra livello societario e istituzionale

di Fabio Fossati

(Reuters)

4' di lettura

Un settore delle scienze umane studia l'evoluzione dei conflitti contemporanei soprattutto per proporre delle soluzioni, indipendentemente da giudizi etici sui buoni e sui cattivi. Nei conflitti, vi è spesso una sfasatura tra livello societario e istituzionale. Gli individui percepiscono di avere dei sentimenti di identità nazionale, riferiti a criteri oggettivi (lingua, religione, etnia) o soggettivi (con una contrapposizione tra un ‘noi' e un ‘loro'). Poi, si formano gli stati: gli attori giuridicamente riconosciuti. Ma le entità sociologiche non corrispondono sempre a quelle giuridiche, e si sviluppano i conflitti, con incompatibilità tra nazioni e stati, che si convertono in guerre.

In est Europa, il governo comunista di Mosca aveva accentuato i conflitti, attuando decisioni artificiali, che si fondavano sulla pulizia etnica: cittadini russi che colonizzavano altri stati o cittadini locali deportati in Siberia. Poi, territori abitati da cittadini di una nazionalità (Crimea, Transnistria, Nagorno Karabakh…), venivano regalati ad altri stati. Il comunismo voleva sopprimere le identità nazionaliste (e religiose), considerate delle ‘sovra-strutture', per costruire l'uomo nuovo. Prima dell'89, i confini erano spesso fasulli e riflettevano divisioni poco più che amministrative fra gli stati. Le frontiere in est Europa non possono dunque essere considerate stabili come quelle dell'Europa dell'ovest; tante zone di confine (come il Donbass) sono bi-nazionali. Le società occidentali sono entrate nella post-modernità, e noi viviamo una fase di post-nazionalismo, per cui le identità locali (basche, catalane, dell'Ulster) sono considerate meno urgenti grazie al benessere economico.

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In Ucraina, la zona ovest filo-europea più vasta è abitata da cittadini che parlano ucraino (70%), la zona est più ridotta è abitata da cittadini che parlano russo (30%), e poi vi sono altre zone centrali dove vi sono cittadini che parlano tutte e due le lingue, con molte famiglie miste. I cittadini si differenziano soprattutto per la religione: sempre ortodossa, ma sotto il patriarcato di Kiev o di Mosca. In Crimea, i russi sono l'80%, gli ucraini il 10% e i tartari il 10%. Dalla fine del ‘700 la Crimea era stata conquistata dallo zar; nel 1954 Kruscev aveva regalato la Crimea russa all'Ucraina. Dopo l'89, per qualche anno governava un presidente occidentale (più democratico), e le elezioni successive era vinte da un leader orientale e l'Ucraina diventava un regime ibrido. Nel 2004, c'era stata la rivoluzione ‘arancione', e si è consolidato un dominio politico della zona ovest a scapito di quella orientale. Nel 2014 è scoppiata la guerra, con la secessione de facto della Crimea e della zona est del paese (il Donbass), abitata da secessionisti filo-russi. Nel 2022, c'è stata l'invasione della Russia di Putin contro l'Ucraina di Zelensky, accomunati entrambi da un sentimento nazionalistico radicale.

Passiamo alle proposte concrete, che possono avanzare i governi europei, come Francia e Italia. I conflitti sono dinamici per loro natura; sarebbe fuorviante applicare chiavi di lettura razionaliste. È difficile che si passi rapidamente dalla guerra alla pace. Ma alcuni passi preliminari potrebbero condurre a siglare una tregua. Vi sono due scenari che convengono ai governi; il riconoscimento de iure della sovranità russa in Crimea (separazione mono-nazionale) e l'attuazione del federalismo in Ucraina, con un'integrazione simmetrica (tra centro e periferia). Solo i nazionalisti radicali ucraini vogliono conservare la Crimea, e il federalismo non è stato applicato negli anni '90 per la miopia dei leader dell'ovest. Il conflitto resterebbe profondo nella zona orientale del paese, cioè il Donbass, alcuni territori a est del fiume Don, altri a sud che si affacciano sul mar Nero e la Transnistria. Sono i territori in cui Putin sta attuando la pulizia etnica, per rendere tali territori mono-nazionali, abitati cioè solo da cittadini russi. È la stessa strategia attuata da Milosevic negli anni '90 in ex Yugoslavia. Il nazionalismo radicale mira a sacrificare migliaia di vite, puntando al dominio della Russia (o dell'Ucraina), o a un compromesso territoriale, con un confine indefinito, ma che in futuro sarebbe tracciato dal sangue versato da troppi disgraziati. Esiste un'altra possibilità per risolvere il conflitto in modo democratico, e cioè l'organizzazione di un referendum sull'auto-determinazione nazionale nelle zone ucraine contese con la Russia (Transnistria inclusa). Zelensky e Putin dovrebbero consolidare la tregua, favorendo il ritiro delle truppe russe dai territori occupati e il rientro (volontario e non coattivo) dei rifugiati scappati dopo l'attacco di Putin. I soldati dell'Onu dovrebbero presidiare i seggi. Le sanzioni economiche cadrebbero se gli stati coinvolti aderissero alla iniziativa dell'Onu. Se Putin rifiutasse il referendum, sarebbero possibili le sanzioni economiche, e gli aiuti militari di altri paesi all'Ucraina. I due governi dovranno impegnarsi a rispettare gli esiti della consultazione, con alcuni territori che chiederanno la secessione e l'annessione alla Russia (separazione mono-nazionale). Forse solo il Donbass (o una parte di esso, o qualche altro territorio limitrofo) chiederà la riunificazione con la Russia. La Transnistria potrebbe diventare ucraina.

Tale soluzione ‘liberale' ha tanti 'nemici', ma resta l'opzione ‘meno peggio' delle altre. Chi non vuole i referendum? In occidente, i militanti della destra conservatrice sono ostili alla revisione di qualsiasi frontiera (la ‘sindrome di Westphalia'). Se il Donbass si separasse dall'Ucraina, vorranno farlo la Bosnia serba, l'Ossezia del sud… Ma se così fosse, pazienza! Poi, ci sarebbe l'opposizione dei paladini del politically correct, cioè la sinistra europea multi/culturalista che preferisce gli stati pluri-nazionali e vede quelli mono-nazionali come un ‘nuovo apartheid' (la sindrome del ‘re Salomone'). Ma il referendum conviene anche a Zelensky e Putin. Zelensky mostrerebbe di essere democratico nei fatti e non solo a parole. Con le armi egli potrebbe mantenere il controllo su molti territori, ma la Russia prima o poi attaccherà. Zelensky potrebbe contare sul fatto che forse i filo russi dopo la guerra potrebbero non voler più stare sotto il giogo di Mosca. Putin potrebbe invece confermare al mondo che tanti cittadini ucraini preferiscono la sovranità russa. Magari diversi ucraini potrebbero decidere di non ritornare nelle zone abitate soprattutto da russi. Così, Putin potrebbe anche trovare una via di uscita accettabile ad una guerra, che nel lungo periodo potrebbe danneggiarlo.

Fabio Fossati (Università di Trieste, professore di Relazioni internazionali e di Conflict resolution)

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