ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùChimica sociale

«Le relazioni valgono un capitale, ma non è solo questione di quantità»

Le reti evolvono di continuo: per le aziende la chiave è intercettarle. Mettersi in ascolto è fondamentale. Parla la sociologa Marissa King

di Giampaolo Colletti

(AFP)

3' di lettura

«Non possiamo vivere solo per noi stessi. Le nostre vite sono collegate da mille fili invisibili. E lungo queste fibre sensibili corrono le nostre azioni come cause e ritornano a noi come risultati». Così affermava a metà Ottocento Herman Melville, autore di quel Moby Dick che ha segnato generazioni. Solo un secolo e mezzo più tardi ad abbattere i gradi di separazione sarebbero arrivate le notifiche delle cerchie amicali nel social network di casa Zuckerberg, che ha ridisegnato le relazioni per un mondo più piccolo e incollato agli schermi miniaturizzati degli smartphone. «Quella di Melville è più che un’ispirazione ed è alla base dell’idea di rete, che per ogni individuo è una mappa che racconta come è stata la propria vita fino a quel punto e dove sta andando. D’altronde oggi le relazioni sociali rappresentano una forma di capitale, come quello economico e umano. E questo capitale sociale richiede investimenti. Per esempio è più difficile chiedere un favore a qualcuno se non hai una relazione già esistente. Ma ciò che distingue il capitale sociale è che il valore si moltiplica in modo esponenziale. D’altronde i lavori con le proprie reti si trovano più velocemente, sono pagati meglio e risultano ancora più soddisfacenti», afferma Marissa King, sociologa e docente di comportamento organizzativo alla Yale School of Management, autrice del best seller tradotto in Italia come “Chimica sociale”.

King è analista delle reti e studia il modo in cui evolvono quelle sociali delle persone, come sono fatte e cosa significano rispetto alla capacità di avere successo. «Le nostre reti dipendono dal fatto che il nostro ufficio sia più o meno vicino all’ascensore, che la nostra abitazione sia in fondo a una strada chiusa, che frequentiamo la chiesa o andiamo in palestra. Tutte le scelte che compiamo hanno un forte impatto sulla nostra rete», precisa King. La struttura dei contatti aiuta a spiegare tutto: da quanto si guadagna alla qualità delle proprie idee che si riescono a realizzare. «Sappiamo da decenni di ricerca che le nostre reti possono essere declinate secondo i profili di espansionisti, intermediatori e aggregatori. Ogni modello ha enormi implicazioni per una varietà di risultati personali e professionali. Gli espansionisti hanno reti estese e ne sono al centro. Gli intermediari aggregano parti non connesse tra loro. Gli aggregatori creano reti dense in cui gli amici diventano amici tra loro. Ma attenzione: la dimensioni della rete è fuorviante. La qualità e non la quantità delle connessioni è un predittore del proprio funzionamento cognitivo e della resilienza lavorativa». Eccolo allora il capitale sociale descritto dal sociologo James Coleman, che rende possibile il raggiungimento di determinati fini.

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Ma non è scontato che le reti mediate dal digitale siano sempre efficaci perché occorrono investimenti economici, massima allocazione di tempo e attenzione, necessari compromessi. Lo ha argomentato Robin Dunbar, antropologo britannico: la quantità di capitale sociale che si ha in dote è piuttosto fissa, ma implica un investimento di tempo. «Se incrementi connessioni con più persone, finisci per distribuire la tua quantità fissa di capitale sociale in modo più sottile e meno controllabile», ha scritto Dunbar. King evidenzia un altro aspetto rilevante: ancora oggi la maggior parte dei lavori si trovano attraverso conoscenti, non tramite amici stretti o familiari. Lo ha teorizzato già nel 1973 il sociologo Mark Granovetter esaminando i professionisti di Newton, 90mila anime nel Massachusetts: Granovetter scoprì che più della metà delle persone avevano trovato lavoro con il proprio network esteso e nei profili più alti si arrivava addirittura a tre persone su quattro. Non si trattava però di amici, bensì di conoscenti. «Lo studio sui legami deboli è stato il primo a sfidare le nozioni convenzionali sul funzionamento dei social e i suoi risultati hanno resistito alla prova del tempo. Oggi sappiamo che le connessioni sociali hanno un effetto su salute e felicità: la solitudine può aumentare di un quarto le possibilità di morte prematura. E c’è un paradosso: questo profondo senso di isolamento arriva in un momento in cui siamo più connessi come mai in passato», conclude King.

Così reti aperte e legami deboli diventano alleati per la carriera, ma per supporto emotivo una rete chiusa può essere più funzionale. Con la pandemia i nostri legami deboli si sono ridotti del 16%. Così mentre le nostre reti sono in continua evoluzione, ci sono alcune costanti: le persone di cui abbiamo bisogno nei momenti difficili e le ricompense emotive che possono arrivare. Allora non esiste una rete migliore o peggiore: momenti differenti richiedono reti differenti. Proprio come le esigenze emotive, sociali e lavorative cambiano nel tempo. Le reti evolvono di continuo: per le aziende la chiave è intercettarle. Mettersi in ascolto: lo disse tempo addietro anche Mark Zuckerberg. In fondo conviene (ancora) credergli.

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