Le startup europee crescono ma non sfondano
Rapporto McKinsey sul sistema mondiale delle imprese ad alto tasso di innovazione: nel Vecchio Continente solo il 14% sono «unicorni», contro il 50% Usa e il 33% dell’Asia
di Flavia Landolfi
3' di lettura
Nascono e si moltiplicano le startup europee che però rispetto a Stati Uniti e Asia fanno fatica a diventare casi di successo e, ancor meno, “unicorni”, le aziende innovative che sul mercato sono valutate dal miliardo di dollari in su. E che in Europa si contano sulle dita della mano, segno che qualcosa si inceppa nel lungo percorso che va dall’idea al business su larga scala. Lo spiega a chiare lettere il rapporto Europe’s start-up ecosystem: Heating up, but still facing challenges realizzato da McKinsey & Company, big della consulenza manageriale a livello mondiale.
Dai primi finanziamenti agli «unicorni»
Il rapporto che il Sole 24 Ore è in grado di anticipare ha studiato dieci anni di dinamiche nel mercato delle imprese tecnologiche ad alto potenziale innovativo. E ha concluso che nell’ultimo decennio il mercato globale delle startup è dominato dagli Stati Uniti, con il 45% delle imprese sostenute da venture capital, seguiti dall’Europa con il 36%, dall’Asia con il 17% e infine dall’America Latina con solo il 2 per cento. Ma è quello che succede nel tempo a fare la differenza: perché se oltreoceano c’è una concentrazione del 50% di unicorni, con startup partite da zero e arrivate a essere valutate diversi miliardi di dollari, nel Vecchio continente il dato crolla al 14%, mentre l’Asia si attesta al 33% e l’America Latina al 2.
Il percorso a imbuto
Nel percorso che separa i primi finanziamenti («seed») e i casi di successo c’è una strettoia che si assottiglia progressivamente in Europa (compreso il Regno Unito) mano a mano che l’impresa si rafforza e sbarca sui mercati esteri. Questo imbuto è articolato nei vari round di finanziamento: tra il 2009 e il 2014, su un campione analizzato da McKinsey, sono 5.417 le start up europee in fase “seed”: di queste solo 756 conquistano la serie A (finanziamenti per il lancio sul mercato), e di queste solo 297 la serie B (espansione del prodotto e sbarco sui mercati stranieri). In serie C, D ed E (consolidamento e ulteriore espansione) se ne contano 138, anche se in tutto il percorso dei round di finanziamento nel frattempo ne sono uscite 647. Chi si ferma a un primo stadio di investimento, quindi, temporeggia rinviando le successive fasi di consolidamento ed espansione che nella maggior parte dei casi implicano la rinuncia a una crescita da unicorno. Questo, rileva McKinsey, non implica però una più marcata propensione al fallimento: quella europea non supera quella statunitense.
Le ragioni di un mancato decollo
«L’Europa, compreso il Regno Unito, ha un Pil sostanzialmente comparabile a quello degli Stati Uniti - spiega Alessio Botta, partner responsabile di McKinsey Digital per il Mediterraneo - ma il Pil europeo è frammentato in Paesi con sistemi regolatori, valute e lingue diverse. Questa frammentazione è il primo freno allo sviluppo delle startup europee». A mettere i bastoni tra le ruote c’è anche però il problema dei finanziamenti.
«Sempre a parità di Pil complessivo, l’Europa registra una capacità di venture capital molto meno sviluppata, che si attesta a circa un quinto rispetto a quella degli Stati Uniti. E qui veniamo al terzo motivo di questo ritardo: e cioè il fattore culturale che fa sì che l’Europa abbia una propensione al rischio inferiore negli investimenti in confronto agli Usa». Un ritardo ben rappresentato dall’analisi sulle fonti di finanziamento: in Europa dominano le agenzie governative (24%) e gli investitori corporate (17%), mentre negli Stati Uniti primeggiano i fondi pensione (20%), capital market e fondi sovrani (16%).
E qui però si rintraccia un punto di forza delle imprese europee. «I corporate venture capital che le grandi aziende strutturano per investire in tecnologia - conclude Botta - possono innescare un circolo virtuoso tra aziende tradizionali in cerca di innovazione e start up».
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