Gli investimenti

Le start up faticano a crescere: pochi acquisti di grandi aziende

Solo 12 operazioni di venture capital nel 2020 hanno superato i 10 milioni di euro. Per McKinsey processi e modalità organizzative diversi frenano le partnership nella fase «growth stage»

di Michela Finizio

La tecnologia ridisegnerà gli spazi dell’abitare e del lavorare, opportunità per le start up

3' di lettura

Sono poche e di modesta entità le acquisizioni di start up da parte di grandi aziende italiane. La recente crescita durante l’emergenza sanitaria dell’open innovation, cioè l’uso regolare di idee e tecnologie esterne da parte delle realtà corporate, spinge le collaborazioni. Tuttavia, raramente si approda a operazioni di successo.

È accaduto, ad esempio, tra il gruppo Reda dello storico lanificio biellese e la scale up Lanieri che confeziona abiti su misura online, acquisita al 100% lo scorso novembre. Ha fatto notizia l’acquisizione da parte di Campari del 49% di Tannico per 23 milioni. Oppure la senese QuestIt, specializzata in tecnologie per l’intelligenza artificiale, che ha visto entrare nel capitale due quotate italiane, prima Exprivia e poi Readytec.

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C’è poi chi, come Enel, collabora con molte start up ma non le acquista. Oppure chi stringe joint venture come Poste Italiane con la tedesca Sennder per ottimizzare il trasporto merci su strada. E chi, come A2A, preferisce investire tramite un proprio fondo di corporate venture capital, ad esempio nella start up inglese Greyparrot.

Ma è quando arriva il grande buyer internazionale che salgono le cifre dei round di finanziamento, come dimostra l’ingresso del colosso cinese Tencent nell’italiana Satispay.

In base all’Osservatorio Start up Hitech del Politecnico di Milano, nel 2020 sono state solo 12 le operazioni oltre i 10 milioni di euro, il 44% tra il milione e i 10 milioni (66% del 2019), il resto di minore entità. In particolare, gli investimenti corporate (non afferenti a fondi corporate venture capital formali) hanno toccato i 65 milioni, su un totale di circa 680 milioni entrati nell’ecosistema italiano delle start up.

A confermare le distanze tra start up e grandi aziende è il recente report di McKinsey «Quando Davide si allea con Golia» da cui emerge che l’Europa genera il 36% delle start up di tutto il mondo, ma solo il 14% degli unicorni (cioè con valore di mercato superiore al miliardo di dollari). «Qui il tasso di mortalità delle start up è più elevato che altrove: per diversi motivi faticano a crescere», afferma Alessio Botta, senior partner di McKinsey. La collaborazione con le corporate è cruciale per crescere e accelerare l’accesso agli investimenti e al mercato finale, ma è tutt’altro che semplice. McKinsey, insieme a B Heroes, ha analizzato queste problematiche intervistando un campione di circa 80 start up italiane e una serie di figure manageriali e dirigenti dell’open innovation.

A ritenere fondamentali le partnership sono soprattutto le realtà in fase di crescita (growth stage), con ricavi superiori a 250mila euro. «La relazione migliora quando non è mediata ma individuale, perché si riesce a mettere al centro i bisogni specifici degli attori coinvolti. In particolare - aggiunge Botta - abbiamo visto casi di successo quando diventa una sponsorship da parte di figure apicali e manageriali della corporate, che ci credono in prima persona». I principali ostacoli sono per il 44% delle start up intervistate i processi decisionali troppo lunghi, difficili da comprendere, l’esistenza di un gap culturale che non viene gestito (38%), ma anche (per il 26%) la velocità decisionale limitata e la flessibilità e autonomia insufficienti. «L’approccio al time to market, ad esempio, è differente. Così come le modalità di selezione di un fornitore . Bisogna cambiare approccio - conclude il senior partner McKinsey - e le grandi aziende devono imparare anche a prendersi carico di parte del rischio di impresa della start up poiché spesso è impossibile avere un track record».

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