Le tentazioni del conformismo piatto e decadente
di Natalino Irti
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Marcello Clerici ha bisogno di sentirsi eguale agli altri, immerso nella protettiva uniformità delle opinioni; di scrollarsi di dosso la fatica della scelta e il peso della libertà. Ecco il tema di Il Conformista, controverso romanzo moraviano del 1951. Così la normalità dà significato alla vita individuale, che s’illude di tenersi al riparo dal rischio. L’uniformità accoglie in sé ogni pigrizia del pensiero, ogni viltà di carattere.
Non è l’unità dei voleri, raccolti intorno a un ideale e miranti allo stesso scopo, ma piatto e paludoso eguagliarsi degli uni agli altri. Il conformismo distrugge lo spirito critico e il travaglio dell’analisi storica, offrendo agli individui, ormai ridotti a “massa”, la garanzia della normalità. Colui che dubita o dissente rompe, per così dire, il patto sociale, questo accordo di identità, e viene in sospetto di peccato religioso, di algidità morale, o di oscure intese con il nemico.
Si denomina, appunto, “contro-corrente”, andare in senso avverso alle acque limacciose del fiume, risalire indietro alla fonte, dove esse sono limpide e schiette. Faticoso, arduo, e talora ambiguo, codesto andare à rebours, anche se non assume il carattere estetico e mondano di quel Des Esseintes, consegnatoci dalle pagine di Huysmans. Così enunciata, l’alternativa è drammatica: da un lato, l’opaco conformismo; il gusto, dall’altro, di sottile e morbosa decadenza, di un ritrarsi tra ignoti piaceri e sfumature dei sensi.
Al conformismo va opposto, non il tormento, tra mondano e mistico, della aristocratica solitudine, ma il vigore dello spirito critico, la spietatezza dell’analisi razionale, ossessiva e tenace nella sua indagine sui “perché?” di cose e vicende umane. Il “perché” deve accompagnare ogni giudizio su eventi, i quali, essendo umani, affondano vichianamente le radici nell’animo e nella mente di individui.
Ciascuno ha proprie abitudini, e stili di condotta, ma questi servono a definire l’identità, il carattere individuale, non sommergono nel grigiore del voler essere eguali. Abitudine non è conformismo, ma piuttosto designa una qualche coerenza di condotta, un modo continuativo e proprio di rispondere alle situazioni della vita. Ed anzi l’abitudine è freno e ostacolo alla subdola tentazione del conformismo: è un tenersi eguali a sé stessi, non farsi eguali agli altri.
Il conformismo – spesso rivelato da un assiduo e concorde applaudire – non favorisce le istituzioni liberali, che vogliono assillo del dubbio, confronto o conflitto di opinioni, lenta costruzione dell’accordo. Né esso garantisce stabilità e continuità di direzione etico-politica, poiché, riposando sul pigro e vile adagiarsi degli animi, è esposto al rischio dell’inattesa mutevolezza. Donde la necessità di mutar d’abito, di indossare una camicia di altro colore, e di esibire un nuovo distintivo. È quel che accade nel “politicamente corretto”, una tra le specie più tristi e torbide del conformismo, dove vige – come già intuì Tocqueville – la tirannia del numero, e dove ciascuno pensa al modo di tutti, ma illudendosi di pensare a modo proprio. Il grado di identificazione è totale; non ci sono riserve critiche; tacciono dubbî e perplessità. Pigrizia, viltà, paura, bruti calcoli di convenienza, si congiungono insieme e instaurano l’eguaglianza del momento, di questo preciso momento, qui ed ora.
Sicché il conformismo si risolve nell’assoluta perdita di identità, nell’affannosa ricerca di un senso, che, non levandosi in interiore homine, si disperde e annichilisce nella molteplicità delle plaudenti apparenze. Sarebbe ufficio della scuola, dei maestri universitarî, ed anche di nobili e austere figure della classe politica, opporsi al conformismo, a un pensare unico che non è vero e autentico pensiero, educando e risvegliando lo spirito critico, il gusto del dissenso, il coraggio di un serio remare à rebours.
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