Le tre cose che ci insegna lo «smart working da coronavirus»
Stare lontani dall’ufficio ci fa capire davvero quanto siamo importanti, cosa vuol dire lavorare da casa e quanto conta il lavoro nella nostra vita
di Lorenzo Cavalieri *
4' di lettura
In questa settimana il coronavirus ha rivoluzionato la vita di molti italiani: scuole chiuse e in tanti costretti, o cortesemente invitati, a lavorare da casa. Nelle zone a maggior rischio infatti molte aziende, anche quelle che non erano già attive con una politica strutturata di smart working, hanno avviato una sorta di «smart working di fatto». Molti economisti del lavoro in queste ore di emergenza sanitaria stanno parlando di gigantesca opportunità: accelerare l’adozione massiva di quel lavoro agile di cui si parla da anni e che in Italia ha avuto anche un riconoscimento giuridico con la Legge 81 del 2017.
Certamente in queste giornate di trepidazione, chi lavora da casa, orfano della propria postazione in ufficio, tra una call e una riunione in videoconferenza, ha la possibilità di riflettere approfonditamente sul proprio lavoro. Emergono in particolare almeno tre temi.
1) Stare lontano dall'ufficio ci dà la misura di quanto siamo importanti.
Stare lontano dall’ufficio ci dà la misura di quanto il nostro lavoro conta. È una lezione sia per gli sbruffoni («se non ci fossi io con il mio team qui crollerebbe tutto») che possono avere la dimostrazione che la loro assenza non sposta poi molto, sia per chi è più demotivato o dimesso («anche se non ci fossi non cambierebbe nulla») che può magari apprezzare il contraccolpo negativo della propria assenza sulla propria organizzazione. Più in generale ritrovarsi senza le piccole grandi sicurezze quotidiane dell’ufficio ci aiuta a meditare sul valore aggiunto delle nostre fatiche quotidiane, sulla nostra indispensabilità e sostituibilità.
Qual è insomma il nostro specifico “contributo alla causa”? Cosa cambia se incontriamo un cliente dal vivo o lo sentiamo al telefono? Cosa accade se rimandiamo una presentazione? Che impatto ha la nostra assenza da una riunione? Cosa succede se i nostri capi o i nostri collaboratori sono costretti a fare a meno di noi? Nel bene o nel male una riflessione disincantata e cinica sulla nostra condizione è molto salutare.
2) Stare lontano dall’ufficio ci fa capire meglio cosa sia lo smart working.
Il lavoro agile sulla carta piace a tutti. Le aziende risparmiano e contemporaneamente aumentano il benessere e le motivazioni dei propri dipendenti. I lavoratori si fregano le mani perché vedono una migliore gestione della vita extraprofessionale, un enorme risparmio di tempo e di risorse fisiche, nervose e finanziarie associato all’eliminazione degli spostamenti. Sullo sfondo l’idea che una giornata di lavoro “in pigiama” ci restituisca quella serenità che le pressioni e lo stress dell’ufficio ci hanno tolto. Le giornate di telelavoro forzato che stiamo vivendo tuttavia possono aiutarci anche a intuire i due aspetti meno evidenti dello smart working. Il primo è di natura organizzativa.
Il lavoro agile è una rivoluzione organizzativa che impone una revisione dei ruoli, degli organigrammi, delle mansioni e soprattutto dei comportamenti. Responsabilizza i singoli, impone loro di relazionarsi in modo diverso, di gestire il tempo in modo diverso, di muoversi su un orizzonte “imprenditoriale”, dove ci si misura sugli obiettivi e sulla gestione di progetti. Non si tratta insomma di “smarcare on line le proprie pratiche da casa”, si tratta di abbracciare un modo completamente diverso di lavorare.
Il secondo aspetto critico dello smart working riguarda il valore nascosto delle relazioni d’ufficio. Lavorare molto da remoto (a casa per intenderci) assomiglia a preparare un esame da privatista. Si studiano esattamente le stesse cose, ma quanto si perde in termini di apprendimento informale in assenza del confronto fisico con i propri compagni e con i docenti? Le dinamiche di una riunione in video conferenza non sono le stesse di una riunione dal vivo. Quanto conta esserci o non esserci fisicamente quando desideriamo conseguire particolari obiettivi negoziali? Comunicare occhi negli o occhi o in chat è molto diverso se bisogna prendere decisioni importanti.
E poi da casa non è facile captare “l'aria che tira” in ufficio, e non si impara a decodificare i segnali deboli che ci vengono dall’osservazione dei nostri clienti o dei nostri colleghi. Infine senza accorgercene lavorando da remoto perdiamo l’attitudine ad adattarci agli altri, a metterci in discussione, a competere. Non per tutti i lavori quindi il passaggio allo smartworking è un’operazione a costo zero.
3) Stare lontano dall'ufficio ci dice quanto conta il lavoro nella vostra vita.
A molti di noi sarà capitato in questi giorni di dover decidere se partecipare o meno a un incontro importante accettando il rischio di un viaggio con i mezzi pubblici o di un fisiologico contatto con persone di cui non conosciamo lo stato di salute. Ci vado o non ci vado? Rischio o mi cautelo? Non voglio ovviamente incoraggiare follie da pseudoeroi. Mi riferisco a quelle situazioni limite in cui sta alla nostra coscienza, forse anche al nostro istinto decidere.
Un bellissimo libro di Taleb (l'autore conosciuto per il celebre saggio sul “cigno nero”) ha come titolo “Skin in the game”, espressione che a me piace tradurre enfaticamente con la frase “giocarsi la pelle”. A prescindere dal fatto che siano lavoratori autonomi o dipendenti molti al lavoro mettono “in gioco la pelle” senza che nessuno li costringa, accettando qualche rischio in più degli altri. Non è mia intenzione indicarli come modelli di spessore etico o di senso di responsabilità. Segnalo semplicemente che Il rischio che siamo disponibili ad assumerci per fare al meglio il nostro lavoro è un termometro utile a misurare la passione per ciò che facciamo.
Se nel nostro lavoro sentiamo la vibrazione di noi stessi, la perfetta realizzazione di noi stessi, allora naturalmente, spesso senza accorgercene, mettiamo in gioco la pelle. In questi giorni in cui tutto ci spaventa ritrovarsi ad accettare piccoli (e sottolineo piccoli) rischi costituisce una bella cartina al tornasole per comprendere quanto siamo innamorati del nostro lavoro (e forse anche di noi stessi).
* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring
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