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Le ultime ore di Jimmy Carter: sereno, con la moglie

L’ex presidente degli Stati Uniti ha deciso di trascorrere gli ultimi giorni nella sua residenza a Plains, in Georgia, ricevendo cure palliative

Jimmy Carter in un’immagine del 1991 tratta dal suo viaggio di Stato in Zambia (Afp)

3' di lettura

Jimmy Carter, il 39esimo presidente americano e il più anziano ex capo di stato Usa vivente, è arrivato alla fine e ha deciso di trascorrere gli ultimi giorni, forse ore, che gli restano nella sua residenza a Plains, in Georgia, accanto alla numerosa famiglia - quattro figli e otto nipoti - e soprattutto all’amata moglie Rosalynn, sposata 77 anni fa. «Dopo una serie di brevi ricoveri in ospedale Carter ha deciso di trascorrere il tempo che gli resta a casa con la sua famiglia e di ricevere cure palliative invece di subire ulteriori interventi medici», ha twittato nel pomeriggio di sabato il Carter Center, la fondazione creata dall’ex presidente nel 1982, dopo aver lasciato la Casa Bianca.

Il nipote, l’ex governatore della Georgia Jason Carter, ha raccontato su Twitter di averlo visto venerdì assieme alla moglie. «Erano sereni, come sempre la loro casa è piena di amore». Una storia, quella tra Jimmy e Rosalynn, celebrata due anni fa con una festa da 300 invitati, per il 75esimo anniversario di matrimonio, alla quale l’ex presidente non volle rinunciare nonostante le precarie condizioni di salute.

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Sopravvissuto a un tumore al fegato, al cervello e finora curato per un melanoma, i biografi lo descrivono come un “combattente” e una “forza della natura gentile”. Da coltivatore di noccioline nella fattoria di famiglia nello stato del sud ai ranghi più alti della politica di Washington, è stato presidente degli Stati Uniti dal 1977, dopo aver sconfitto il repubblicano Gerald Ford, fino al 1981, quando è stato battuto da Ronald Reagan, diventando così uno dei pochi leader americani ad aver guidato il Paese per un solo mandato.

Artefice degli accordi di Camp David che portarono, nel marzo 1979, alla firma del trattato di pace israelo-egiziano, protagonista del ristabilimento delle relazioni diplomatiche con la Cina e della firma degli accordi per la “limitazione delle armi strategiche” con la Russia, fatale per il democratico fu la crisi degli ostaggi in Iran, uno degli eventi che ha più condizionato i rapporti tra Washington e Teheran.

Pochi mesi dopo la Rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini, per decisione di Carter lo scià Mohammad Reza Pahlav fu accolto negli Stati Uniti per essere curato da un grave linfoma. Il giorno dopo, il 4 novembre del 1979, centinaia di studenti islamici attaccarono l’ambasciata americana a Teheran e presero in ostaggio 52 dei suoi dipendenti. La liberazione avvenne ben 444 giorni dopo, al termine di lunghi e complicati negoziati, il 20 gennaio 1981, mentre Reagan stava giurando come nuovo presidente. Una vicenda, raccontata nel celebre film con Ben Affleck “Argo”, che affossò la presidenza di Carter, anche perché un tentativo di liberazione con elicotteri militari nell’aprile 1980 fallì miseramente per le condizioni meteo e lo scontro tra due velivoli.

Dopo aver lasciato la Casa Bianca l’ex presidente ha fondato assieme alla moglie il Carter Center con il quale nel 2002 ha ricevuto il Nobel per la Pace per “decenni di instancabili sforzi per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti internazionali”. Ed è stata la sua fondazione a dare la notizia che il presidente era in fin di vita. «La decisione di ricevere cure palliative a casa è stata presa d’accordo con la famiglia e i medici» dell’ex presidente. Adesso, si sottolinea nel comunicato ufficiale della fondazione, «ringraziando gli ammiratori di Carter per il loro affetto» i parenti chiedono che sia «rispettata la loro privacy».
(di Benedetta Guerrera, Ansa)

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