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Leonardo «omo di lettere»

di Carlo Vecce

5' di lettura

La biblioteca di Leonardo. Devo confessare che ci giro intorno da quando mi sono accostato per la prima volta alla sua opera. Ero studente, con un maestro che ci raccontava storie di biblioteche, di libri e lettori che avevano cambiato il mondo. Il maestro era Giuseppe Billanovich, e la biblioteca era quella di Petrarca. Nell’aula accanto, Augusto Marinoni ci leggeva i testi di Leonardo: ma, della sua edizione degli Scritti letterari, la parte che mi affascinava di più era l’appendice, intitolata I libri di Leonardo.

Non si può dire che Leonardo lettore sia oggi il suo aspetto più conosciuto. Nell’immaginario contemporaneo, Leonardo è di solito associato al mito del genio solitario e un po’ bizzarro, fastidiosa icona pop esaltata o dissacrata dalla cultura mediatica. Ogni tanto si sente di qualcuno che ha riscoperto la Battaglia di Anghiari o le ossa della Gioconda. Leonardo lettore, invece, che non suscita il clamore delle scoperte sensazionali, può avvicinarci molto di più al suo mondo e alla sua vita. Anzi, bisognerebbe cominciare a dire che la maggior parte del suo tempo è stata trascorsa non sui ponteggi di un cantiere o del Cenacolo, col pennello o con la squadra in mano, ma allo scrittoio, nello studio, a leggere libri, a scrivere e a disegnare. Quello scrittoio pieno di libri al quale si siede Leonardo, cercando (invano) di capire quanto gli dicono i colleghi ingegneri Troisi e Benigni in Non ci resta che piangere, è esistito davvero.

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Se qualcuno lo accusava di essere un omo sanza lettere, cioè privo di conoscenza del latino, Leonardo gli rispondeva che le sue cose erano tratte più «dalla sperienzia che dall’altrui parola»; ma poi riapriva i suoi libri, e riprendeva il dialogo (come l’amico Machiavelli), continuo e ininterrotto, e spesso in vivace contraddittorio, con gli autori (o, come li chiamava lui, altori). I libri erano davvero “antichi amici”, splendida definizione che aveva trovato in uno dei suoi volumi più belli, il De re militari dell’umanista Roberto Valturio. Quel libro lo aveva anche aiutato a colmare le lacune più vistose della sua formazione, saccheggiato come miniera di parole, idee, immagini, citazioni di seconda mano di grandi autori classici come Lucrezio, riscoperto pochi anni prima da Poggio Bracciolini. Ecco il decisivo momento di svolta, in cui Leonardo decide di diventare omo di lettere, ed egli stesso un altore: intorno al 1487, quando inizia il Codice B e il Trivulziano.

Ma cosa sappiamo della biblioteca di Leonardo? Per nostra fortuna, Leonardo aveva diverse piccole manie, e una era quella degli elenchi. Elencava di tutto e minuziosamente, dai titoli dei capitoli di libri solo progettati alle voci della spesa quotidiana e ai soldi che prestava, dagli utensili di bottega ai capi d’abbigliamento (elegantissimi e costosi). E compilava anche elenchi di libri. All’inizio brevi liste, pochi titoli mescolati a nomi di persone e cose; e poi due liste più lunghe, forse in occasione di trasferimenti (Milano c. 1495 e Firenze c. 1503). Prima di riporre i libri nelle casse da lasciare al monastero, Leonardo registrava i nomi degli autori o i titoli, e anche qualche dettaglio materiale: “grande”, “mezzano”, “piccolo”, “vecchio”, rilegato “in asse”, e perfino una macabra decorazione esterna “colla morte di fori”. Alle liste di libri e alle occasionali indicazioni bisogna poi incrociare la rete infinita di riferimenti testuali che percorre i codici vinciani. È lì che emerge il rapporto vivo tra il libro e il suo lettore, che spesso ha per Leonardo il sapore di un dialogo diretto con l’altore: «Dice Mondino ...», «Dice Batista Alberti ...», «Riprova contro Batista Alberti ...».

Quanti libri aveva Leonardo? E quali? Tra le liste e le altre citazioni, non arriviamo a più di centosessanta volumi. In gran parte sono libri a stampa: la rivoluzione avviata da Gutenberg risaliva a pochi anni prima, ma Leonardo trova subito conveniente, a Milano, l’acquisto di quei volumi freschi di stampa. Quasi tutti in volgare, ma in seguito anche in latino. Relativamente pochi i testi tecnici e scientifici (come invece ci si aspetterebbe da Leonardo), e molti quelli di letteratura (storie antiche e moderne, novelle e facezie, favole, poesia, poemi e cantari cavallereschi), di grammatica e di retorica (per imparare il latino e a scrivere bene). Se fosse stata la biblioteca di un intellettuale qualsiasi del suo tempo, forse non avrebbe lo stesso potere d’attrazione e fascinazione. Un professionista della cultura e delle lettere, un professore universitario o un umanista, l’avrebbe trovata un po’ misera, nel numero complessivo dei libri e nella loro qualità intrinseca. E invece, rapportata alle usuali raccolte librarie di mercanti-borghesi o di artisti e omini pratici del Quattrocento, le sue dimensioni appaiono assolutamente eccezionali. Di più, era una biblioteca che aveva viaggiato in giro per l’Italia e l’Europa, seguendo il proprietario negli spostamenti e nelle vicende della sua vita: all’inizio composta solo dai tre-quattro libri della giovinezza (Ovidio, Dante, Plinio, Pulci) da Firenze a Milano (1482), poi, sempre più ampia, da Milano a Firenze (1499), di nuovo a Milano (1508), poi a Roma (1513), e infine ad Amboise, in Francia (1516). Con tutti i problemi che comportava allora il viaggiare, con l’organizzazione puntigliosa dell’itinerario più sicuro (da guerre, briganti, eventi atmosferici), degli attraversamenti dei confini e delle dogane, delle cavalcature, delle casse da soma.

L’appassionante riscoperta della biblioteca di Leonardo è un fatto relativamente recente, e che riserva ancora molte sorprese. Intorno al 1870 un grande scienziato linceo, Gilberto Govi, trovò nel Codice Atlantico la più antica delle due liste, pubblicata dal marchese Girolamo d’Adda in Leonardo da Vinci e la sua libreria (1873). Nel 1967 la scoperta dei Codici di Madrid portò alla luce la seconda più ampia lista fiorentina. Ma già trent’anni prima la biblioteca sembrò materializzarsi nell’allestimento della grande Mostra Leonardesca di Milano (1939). Un visitatore d’eccezione, l’ingegnere Carlo Emilio Gadda, si chinava su quei volumi e ne prendeva nota in un suo taccuino, quasi uno per uno, lasciandosi travolgere da «brividi di delizia», ma anche dalla rabbia per non riuscire a decifrare la scrittura di Leonardo, «quella sua tremenda scrittura mancina che parte dal margine destro del foglio e che bisognerebbe leggere a rovescio, nel negativo come Don Bartolo sulla carta suga il viglietto della Rosina». Nella stessa sala un altro visitatore, invece, si faceva prendere dal sogno di ricostruire la biblioteca di Leonardo a casa sua, acquistando sul mercato antiquario incunaboli e testi utilizzati da Leonardo: era il medico americano Elmer Belt, e la sua collezione è oggi nella biblioteca dell’università della California a Los Angeles. E da Los Angeles un’altra mirabile biblioteca vinciana è giunta in Italia, sulle colline di Vinci, grazie a un altro grande sognatore (allora poco più che un ragazzino di dieci anni), Carlo Pedretti.

Ricordo quello che ci insegnava Billanovich tanti anni fa: quando iniziò, nell’Ottocento, la caccia ai libri di Petrarca, non se conosceva quasi nessuno. E la biblioteca di Leonardo? Finora è stato rintracciato un solo libro postillato da lui, il codice laurenziano del trattato di architettura di Francesco di Giorgio Martini. Tutto il resto sembra essere andato perduto, con la dispersione dell’eredità del maestro. Lo studio delle liste e dei riferimenti nei suoi codici consente però, in molti casi, l’individuazione, con maggiore o minore grado di probabilità (e talvolta anche con certezza), delle edizioni utilizzate. Oggi è possibile riprendere la ricerca sugli esemplari di quelle edizioni con nuovi strumenti di indagine, e ricostruire la fisionomia di questa biblioteca perduta, e tornare a leggerne i testi come li leggeva Leonardo, intrecciandoli con il sistema di citazioni che emerge dalle sue migliaia di pagine; per arrivare forse, in futuro, a trovare in altri libri le tracce di quella «dannata scrittura da rovescio».

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