arte

Leoncillo, il “ceramista”

di Ada Masoero

2' di lettura

Per decenni, dopo la morte prematura, di Leoncillo (Leoncillo Leonardi, Spoleto, 1915 - Roma, 1968) non si parlò più. Dimenticato, se si escludono le rare mostre dei critici che lo avevano sostenuto in vita, a dispetto della fortuna di cui la sua scultura aveva goduto sin dai tardi anni ‘40, quando Alberto Moravia gli aveva presentato una personale nella galleria della Spiga a Milano, presto seguito da Roberto Longhi, Cesare Brandi, G.C. Argan, Maurizio Calvesi, Giovanni Carandente, Palma Bucarelli: il Gotha della storia e della critica d'arte del tempo.

E a dispetto anche delle precoci presenze alla Biennale veneziana e ad altre prestigiose mostre internazionali. Da qualche tempo, però, il vento sembra essere cambiato. Lo prova l'aggiudicazione, da Christie's a Milano, nello scorso aprile, di un suo Taglio bianco di terracotta che, stimato 80-120 mila euro, è volato a 230 mila euro, e lo conferma l'interesse mostrato da una galleria come la veronese Galleria dello Scudo, che già da alcuni anni andava raccogliendo le opere per la mostra inaugurata ora, “Leoncillo. Materia radicale. Opere 1958-1968” (fino al 31 marzo, a cura di Enrico Mascelloni), in cui sfilano una ventina di veri capolavori del suo ultimo decennio: quello che gli garantì definitivamente un posto fra i grandi scultori del ‘900.

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Le sculture di Leoncillo in mostra a Verona

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Di sé Leoncillo -che era coltissimo- diceva «sono nient'altro che un ceramista», marcando così la sua alterità rispetto a un ambiente artistico che sentiva poco autentico. E la scelta di un materiale povero e primario come la terra era per lui (comunista convinto, che però non accettò di piegarsi al realismo “sovietico” imposto dal partito) una scelta di campo anche politica, identificando nella ceramica la più “proletaria” tra le tecniche artistiche.
Dopo una lunga e fortunata stagione vissuta nel segno del post-cubismo, la crisi ideologica che visse per l'invasione sovietica dell'Ungheria lo portò, nei secondi anni ‘50, a inaugurare un'arte nuova, fatta di una materia magmatica e corrugata, che lo condusse sino ai limiti (se non fin dentro) l'informale; seppure di un informale che non si staccò mai completamente dal reale.

Le sue potenti sculture verticali, spaccate longitudinalmente da un taglio profondo, evocano, infatti, tronchi squarciati da un fulmine, i suoi San Sebastiano fanno davvero pensare a un corpo piagato, e le sculture orizzontali (una novità assoluta, ben prima di Carl Andre o Richard Long) sono come zolle di terra arata o porzioni di magma appena raffreddato, che si apre a mostrare il rosso della materia incandescente. Una materia ferita la sua, scaturita dalle tragedie della guerra da poco finita, che oggi ritrova una drammatica attualità.

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