viaggio nell’anima dell’europa / 6

Leopoli, città di sogni e di confini annullati

di Carlo Ossola

Il centro di Leopoli , dichiarato patrimonio dell’umanità dall ’Unesco. (Marka)

5' di lettura

Per arrivare preparati a Leopoli, bisogna passare prima a Drohobych, 80 km a sud, nel paese delle Botteghe color cannella di Bruno Schulz: «La sostanza di quella realtà – osserva l'autore in un'intervista del 1935 – si trova in stato di continua fermentazione, di germinazione, di vita segreta. Non vi esistono oggetti morti, duri, limitati. Essa dilata ogni cosa al di là dei suoi limiti». E sin che la Gestapo, nel novembre 1942, non lo fece scomparire per sempre, viveva – anche per noi – in quella fluttuante levità: «Caratteristiche del quartiere sono le carrozze senza conducenti, che se ne vanno tutte sole per la strada. Non che manchino i vetturini, solo che essi, mischiati alla folla e presi da mille affari, non si curano delle loro vetture. In quel quartiere tutto apparenza e gesti vuoti non si attribuisce troppa importanza alla meta precisa di una corsa e i passeggeri si affidano a quei veicoli erranti con la leggerezza che caratterizza tutto» (La via dei coccodrilli). Uno spazio svuotato dal tempo: «Del resto non mancano nel quadro della città anche certi tratti di autoparodia. Le file di basse casette periferiche a un piano si alternano con edifici a più piani, che sembrano fatti di cartone e sono conglomerati di insegne, cieche finestre di uffici, vetrine grigiastre, reclame, numeri. […] Tuttavia, nonostante l'aria affaccendata e piena di interesse, si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un errante, monotono vagabondaggio senza meta, a un sonnolento corteo di marionette» (ivi).

un cortile in stile veneziano della città, a testimonianza di uno scambio mediato dalla Serenissima che si è avvertito fino a queste latitudini

Per approssimarci con passo discreto a Leopoli, bisogna passare dal Mondo di ieri. Ricordi di un europeo di Stefan Zweig, alla memoria del quale questo viaggio è dedicato; attraversare la Galizia di Joseph Roth, ora percorribile nel suo bel Viaggio ai confini dell'impero (Passigli 2017); entrare in Leopoli leggendo la poesia che gli dedica Adam Zagajewski, Andare a Leopoli: «Andare a Leopoli. Da quale stazione andare / a Leopoli, se non in sogno, all'alba, / quando la rugiada ricopre le valigie e proprio allora / nascono i rapidi e gli espressi. […] / Fare i bagagli e partire, senza neppure / salutare, a mezzogiorno, svanire così come / venivano meno le fanciulle. E le bardane, la verde / armata delle bardane, là sotto, sotto gli ombrelloni / di un caffè veneziano, le lumache conversano / dell'eternità. […] / C'era sempre troppa Leopoli, nessuno sapeva / capirne i quartieri, sentire / il sussurro di ogni pietra bruciata / dal sole, la chiesa uniate di notte taceva in modo / del tutto diverso dalla cattedrale, […] / e c'era troppa / Leopoli, traboccava dal vaso, / crepava il vetro dei bicchieri, straripava / dagli stagni, dai laghi, fumava dai / comignoli, / si mutava in fuoco e in tempesta, / rideva con i fulmini, diventava umile, / tornava a casa, leggeva il Nuovo Testamento, / dormiva sul divano sotto il kilim carpatico, / c'era troppa Leopoli e ora non ce n'è / affatto, …»

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Leopoli [foto 1] non trabocca più di lingue (in ucraino: Львів, L'viv; in polacco: Lwów; in russo: Львов, L'vov; in tedesco Lemberg; in yiddish לעמבערג, Lemberg; in latino Leopolis, “la città del leone”) e di popoli, il mosaico cosmopolita dell'Europa che fu: austriaci e tedeschi, polacchi e russi, ebrei e ungheresi, ucraini e valacchi, città di più stati, di occupazione in occupazione, sino a quella nazista che sterminò i 100.000 ebrei della città.

Eppure la città ha il suo profumo: perenne scia di un altrove: il “cortile veneziano” [foto 2], le chiesette di legno, [foto 3], sapori di vincitori e di vinti, come ricorda Roth: «È una grande presunzione voler descrivere una città. Le città hanno tanti volti, tanti stati d'animo, migliaia di direzioni, mete variopinte, misteri oscuri, misteri gioiosi. […] Ci sono città che odorano di crauti. Di fronte a ciò, non c'è barocco che possa porvi rimedio. […] Ancora oggi Leopoli appare come una ‘retrovia'. La strada principale si chiamava un tempo Karl-Ludwig-Strasse, per lealtà nei confronti della casa regnate. Oggi si chiama “Via delle Legioni”. Si intende le legioni polacche. […] Oggi si parla polacco, tedesco e ruteno. Nei pressi del teatro, che delimita la fine della strada, la gente parla yiddish. In quel quartiere si è sempre parlato yiddish. Probabilmente non si parlerà mai altro che yiddish» (Leopoli, la città). “Probabilmente”: la storia è molto più crudele del nostro pensarci eredi di un luogo…

Una chiesa di legno, altra costruzione tipica della città. (Marka)

Deportazioni, perdite continue di memoria, come in Tradimento di Adam Zagajewski: «Le cose si dividevano in tre categorie: aristocratiche, borghesi e socialiste. Quelle aristocratiche venivano da Leopoli. Dato che le famiglie deportate non avevano avuto la possibilità di portarsi via tutto, si erano salvati soltanto gli oggetti più preziosi: argenteria (e sicuramente l'oro, ma i miei genitori non ne avevano), quadri, tappeti, kilim, acquerelli, ricordi di famiglia, libri rari, mobili d'antiquariato. Le definisco aristocratiche perché di solito non servivano a nulla e avevano un valore emotivo, sentimentale più che commerciale».

LE TAPPE DEL VIAGGIO

LE TAPPE DEL VIAGGIO

Ho qui una foto di Zagajewski in conversazione con Wisława Szymborska (1923-2012; premio Nobel per la letteratura nel 1996) [foto 4]; reciprocamente rispettosi, attenti, leggermente ironici: hanno aiutato la mia generazione – con il loro compatriota e cineasta Krzysztof Kieślowski – a non cedere mai al nulla: «Quando pronuncio la parola Niente, / creo qualche cosa che non entra in alcun nulla» (Szymborska, Le tre parole più strane). Così il tormentato Decalogo di Kieślowski: riapprendere gli “universali” che ci rimettono nel respiro del cielo stellato: «Ieri mi sono comportata male nel cosmo. / Ho passato tutto il giorno senza fare domande, / senza stupirmi di niente» (Szymborska, Disattenzione).

Per questo Leopoli – città di stupori e di sogni - sarà sempre, nella nostra memoria, quella di Joseph Roth: «Questa è la città dai confini annullati. […] Dopo Leopoli inizia la Russia, un altro mondo» (Leopoli, la città). Sta a noi cancellare i confini, costruire e custodire la nostra Leopoli, come conclude la poesia di Zagajewski: «[…] e ora, ma in fretta, / fare i bagagli, sempre, ogni giorno, / e andare senza fiato, andare a Leopoli, / eppure esiste, quieta e pura come / una pesca. Leopoli è ovunque».

Ogni contrada ha la sua Leopoli. In Italia è nome abbandonato, rovina altomedievale nelle alture di Tarquinia; nel nostro cuore va preservata, “retrovia” e “arrière-pays”, direbbe Bonnefoy; quando entro nella mia Leopoli, mi accompagno a Bronisław Baczko, Tinto e Daniela Vitta, Francesco Cataluccio; con loro il tempo è annullato. Si parla di poche cose, perché la domanda è sempre la stessa: «Sono morti in circostanze tragiche, deboli e ammutoliti, benché Tu li avessi creati per parlare. Altri sono tornati a vivere, ma, ciò nonostante, tacciono. Perché? Alcuni hanno paura, molta paura. Gli tremano le ginocchia e i polpacci, le mani e i pensieri. […] E così, alcuni sono diventati calzolai, altri costruiscono modellini di aeroplani, altri ancora tengono la contabilità in una cooperativa casearia o di conciatori. Qualcuno fa il tassista, qualcun altro è al botteghino di un teatro, certuni ancora sono diventati giardinieri, molti sono andati oltre confine (che meraviglia che ci siano ancora dei confini!)» (Adam Zagajewski, Tradimento).

Anche chi tace, cerca la sua Leopoli.

Riproduzione riservata ©

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