Letale scorrere del grande fiume
di Vittorio Giacopini
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«Passata l’ultima ansa, il grande fiume appare all’improvviso, increspato dal vento». È una zona di gore e di paludi, un reticolo di canneti e informi banchi d’arena, vicoli ciechi e isolotti, lanche basse e labirinti lacustri, pozze saline e, a tratti, quando spira quel vento di sudeste, che allarma i pensieri, il mare si spinge nel profondo della terra, e il delta del Paranà ricomincia sempre da capo, e cambia aspetto, e gli uomini - non molti – che si ostinano a presidiarlo fanno i conti col mutamento, e lo subiscono, e per arrestarlo ricorrono al vecchio trucco d’Adamo, danno i nomi, e quella mappa di corsi d’acqua e spiagge e punte perse nel vuoto e terre renose che tende a mutare prende la forma di un alfabeto in divenire e ogni luogo ha un nome, per quanto possa servire, per quanto conti: Rio della Plata, Lujan. L’Aguilas, San Fernando, il fiume Uruguay, El Diablo, El Moron, Punta Chaparro, Brazo Largo e Brazo de la Tinta, Alférez Pago. Quando muore il vecchio, El Boga, che ha sempre vissuto lì, prova ad andare ma chi si muove dal Delta, per quanto vada lontano, resta nel Delta, e Sudeste è anche il racconto di un viaggio da fermo, o attorno al proprio centro, ammesso vi sia, e, insomma, siamo dalle parti del romanzo on the road, ma un po’ tutto al contrario, girando in tondo, e su una barca sfondata (che, dicono, fosse stata un gioiello, ma è da vedere) e all’inseguimento di un’ipotesi di libertà - cos’altro cerchiamo? - però mascherata da esercizio di ascesi, di solitudine, e sempre scandita dal vento di sudeste, che si alza e cala, e dalle rotte dei pesci, fonte di meraviglia e fonte di vita.
In uno dei romanzi più affascinanti della letteratura argentina del Novecento, Haroldo Conti torna al luogo-dei-luoghi, il grande fiume. È lo stesso paesaggio estremo che ritroviamo in altri libri capitali, in certi romanzi di Saer, o in Senza macchia apparente, di Alicia Plante. La foce del Paranà, il grande Delta. Rare case e capanni, chiatte che scorrono lente su acque piuttosto fiacche, uccelli marini in ricognizione (e, più in altro, altri strani e grandi uccelli rumorosi, i caccia dell’aviazione, dei militari). È un immenso microcosmo, è tutto un mondo: «Il delta del Paranà nel suo punto più largo raggiunge quasi i 70 chilometri. Ma questo è solo l’inizio del discorso. La faccenda è molto più vasta: 3282 chilometri per il rio Paranà e 1580 chilometri per il Rio Uruguay. E non è detto che sia tutto lì».
E infatti non è detto, anzi al contrario. Non c’è nessuna stucchevole ideologia della natura o del percorso iniziatico nella prosa di Conti. L’avventura del Boga è un viaggio fluviale dentro una ragnatela inflessibile di coordinate cartografiche dettagliate e precarie, intricatissime, e in questi mesi d’estate al contrario, salendo verso la fonte del calore, andando al Nord, El Boga appunto riperimetra l’orizzonte a cui è stato assegnato dalla nascita e a cui non riesce a sfuggire, e neppure vuole. Sono luoghi di «silenzio e paciosa tristezza», le rive del fiume.
Conti, d’altronde, quei posti li conosceva bene, e li amava molto. Di lui, ci resta solo una scarsa memoria e un pugno di foto. In alcune di queste se ne sta tranquillo appoggiato alle spallette di un barca, e all’orizzonte indovini esattamente quel paesaggio di isolotti e insenature, istmi paludosi e canne, e ombre e spiagge. Aveva una casa da quelle parti e appena poteva lasciava la città, scappava nel delta. Buenos Aires, per questo grande scrittore e giornalista, era come la racconta nel libro, una scena distante, o un fondale di teatro, in controtempo. «Nei giorni chiari, guardando a sud, come quinte teatrali perennemente oppresse da una nuvola ferrigna, si possono scorgere i profili grigi e bianchi degli edifici più alti di Buenos Aires». Il 5 maggio del 1976, quando viene rapito, Conti si trovava lì in città. Non se ne è mai più saputo nulla: desaparecido.
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Haroldo Conti, Sudeste , traduzione di Marino Magliani, Exorma edizioni, Roma, pagg. 217, € 14
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