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Libano, un altro durissimo colpo per una nazione sull’orlo del collasso economico

Negli Anni Settanta veniva chiamato «la Svizzera del Medio Oriente». Ora tra default, attentati e blackout elettrici il Paese dei Cedri è in una crisi profondissima

di Roberto Bongiorni

(Epa)

4' di lettura

Sono state due potenti esplosioni, l'una a pochi secondi dall'altra. Entrambe nel porto di Beirut. Secondo la versione ufficiale riferita direttamente dal presidente del Libano, Michel Aoun, a provocarle sarebbe stato un incendio in un deposito nel porto dove erano immagazzinate 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, sequestrate diversi anni fa da una nave. La seconda esplosione è stata talmente forte da evocare lo spettro di un ordigno nucleare, lasciando gli stessi libanesi perplessi sul fatto si trattasse solo di fuochi di artificio.
In questa città tristemente abituata agli attentati con grandi ordigni, un'enorme nuvola bianca a sfera e un'onda d'urto che ha distrutto finestre e vetrine a grande distanza non si era mai vista. Un'onda che ha devastato parte dei quartieri centrali situati nelle vicinanze del porto e quasi tutte le vetrine dei quartieri di Hamra, Badaro e Hazmieh, nella parte orientale di Beirut. Così come le finestre delle auto che sono state abbandonate per le strade con gli airbag gonfiati. Per avere il bilancio ufficiale occorrerà attendere ancora a lungo. Molti corpi sarebbero sepolti sotto le macerie. Si teme possa trattarsi di una carneficina.

Le coincidenze che lasciano con il fiato sospeso

Non è dunque ancora chiara la dinamica dei fatti, tantomeno le responsabilità. Ma vi sono delle circostanze che non fanno dormire sonni tranquilli a molti libanesi, e non solo. Una delle esplosioni sarebbe avvenuta vicino alla residenza dell'ex primo ministro Saad Hariri, il figlio del ricchissimo businessman Rafik Hariri, anch'egli carismatico primo ministro libanese, assassinato il giorno di San Valentino del 2005 sul lungomare di Beirut in un attentato che cambiò la storia del Libano. Travolti dal potente ordigno morirono insieme al premier altre 21 persone. Furono subito sospettati alcuni membri degli Hezbollah, il movimento sciita libanese alleato dell'Iran e nemico del partito sunnita di Hariri, ma anche dei servizi segreti siriani. Pochi mesi dopo, incalzato dalle oceaniche proteste, il regime di Damasco decise di ritirare i propri militari presenti nel Paese dal 1975. Un evento storico. Nel mentre il Paese dei cedri si spaccava in due, tra pro-siriani e anti-siriani. Seguì la stagione delle bombe e degli attentati.

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Venerdì la sentenza sull'assassinio di Rafik Hariri

Proprio venerdì prossimo sarà resa nota l'attesissima sentenza del Tribunale speciale per il Libano (Tsl), con sede all'Aja, sull'omicidio di Rafiq Hariri. Alla sbarra ci sono quattro imputati in contumacia, tutti membri del movimento sciita libanese Hezbollah: Salim Ayash, Habib Merhi, Hussein Oneissi e Assaad Sabra. C'era anche un quinto imputato, Mustafa Badreddin, considerato la mente dell'attentato di San Valentino, ma è stato misteriosamente ucciso a Damasco nel 2016. Certo, la pista dell'incidente resta quella più accreditata. Ma di questi tempi, in questo Medio Oriente in fiamme, straziato da guerre civili, proteste e crisi economiche, non si può escludere nulla.

Da Svizzera del Medio oriente a Paese in default

Anche lunedì non lontano dal luogo dell'esplosione i libanesi stavano manifestando – come fanno ormai dallo scorso autunno - questa volta contro gli esasperanti black out che durano fino a 20 ore al giorno. Il Libano sta attraversando uno dei periodi più bui della sua storia. I conti pubblici, gravati dal secondo debito più alto al mondo, non hanno retto più. Le manifestazioni oceaniche dello scorso autunno hanno sì portato ad un cambio di governo, ma anche il nuovo esecutivo non è riuscito a trovare una soluzione efficace. E così il 9 marzo, quando il coronavirus cominciava a farsi strada anche nel Paese dei Cedri, il nuovo governo non ha pagato un Eurobond da 1,2 miliardi di euro in scadenza, dichiarando peraltro l'impossibilità di pagare tutti gli altri a venire. Da allora è entrato ufficialmente in default.

E pensare che questo piccolo Paese di neanche sette milioni di abitanti negli anni 70 era chiamato la Svizzera del Medio Oriente. E che fino a qualche anno fa veniva definito il regno delle Banche, un Paese dollarizzato, con una valuta locale forte ancorata da oltre 20 anni al biglietto verde. Ancora nel 2018 i depositi superavano di tre volte il Pil e gli istituti di credito macinavano profitti. In pochi anni è sprofondato nel club dei Paesi poveri. In settembre, dopo un anno di grave crisi, il 33% per cento della popolazione era precipitato sotto la soglia relativa di povertà. In marzo sotto la soglia relativa di povertà si trovava quasi metà della popolazione, il 45%, di cui il 22% in estrema povertà. Da allora, complice anche la pandemia di Covid19, le cose non hanno fatto altro che peggiorare. Tutti i servizi si base sono allo sfascio. Le principali vie e le piazze restano al buio per mancanza di energia elettrica. La parabola della società elettrica libanese, in rosso cronico, inghiottita dalla corruzione, ha fatto sì che i blackout martoriassero la capitale. Chi può si arrangia con i generatori privati, ammesso e non concesso che trovi il carburante per farli funzionare. Gli altri si devono adattare.

File interminabili di auto sostano davanti alle poche stazioni di servizio aperte, a pochi metri da cumuli di immondizia abbandonati sulla strada da giorni. Gli ospedali sono pieni, la disoccupazione alle stelle, la lira libanese (ormai sganciata dal dollaro) ha perso in otto mesi l'80% del suo valore sul mercato nero. Il governo non è riuscito a trovare un accordo per un haircut che possa traghettare il Paese fuori da questa crisi. Lunedi il ministro degli Esteri Nassif Hitti ha dunque rassegnato le dimissioni. Il suo j'accuse è stato particolarmente pesante. Non vi sarebbe, a suo avviso «una reale volontà di intraprendere una riforma strutturale e totale, necessaria e richiesta dalla nostra società e dalla comunità internazionale». Le trattative con il Fondo Monetario internazionale sono ad un punto morto. Ed il Libano, Paese che importa quasi ogni bene che consuma, rischia ora di crollare, quasi diventasse un Venezuela mediorientale. E questa volta, a provocate il tracollo, non è stato un conflitto armato, un cataclisma naturale, un embargo con durissime sanzioni come in Iran. Il Libano è vittima di un gioco più grande di lui, di una regione in fiamme, di cui è stato investito. Ma soprattutto è vittima di una corruzione dilagante e di un élite composta da grandi famiglie storiche che si spartisce su base confessionale il potere.


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