Liberazione e conversazione
di Teresa Franco
4' di lettura
Duecento anni ci separano dal mondo di Jane Austen (1775-1817), e ancora oggi nel rileggere i suoi romanzi siamo colpiti dall’apparente contrasto tra la serenità della vita di campagna in cui sono ambientate le sue storie, e la tumultuosa era Georgiana, segnata da instabilità politica e da continue guerre. Quasi al riparo dai grandi eventi storici che minacciavano la potenza dell’impero britannico, Austen disegna una mappa di piccoli villaggi e di grandi case, in un paesaggio ispirato alla lenta e abitudinaria vita dello Hampshire, la regione nel sud-est dell’Inghilterra in cui trascorse la maggior parte della sua esistenza, e dove si spense, assistita dall’amorevole sorella Cassandra, a soli 41 anni, un venerdì, 18 luglio.
Dopo tanto tempo, e benché la geografia dei suoi romanzi appaia ancora più nitidamente definita, se non forse rimpicciolita dalla mobilità a cui siamo abituati, Jane Austen è diventata un’icona della letteratura mondiale. Niente di pregiudizievolmente limitativo ed esclusivamente “femminile” può più proiettarsi, dunque, sull’incisione in avorio di pochi millimetri a cui la Austen aveva paragonato la sua prosa in una delle pochissime dichiarazioni poetiche pervenute.
Con affilati strumenti narrativi lei ritrae la mentalità borghese, mostrandoci quanto anche la marginale esistenza di una giovane donna in cerca di marito sia implacabilmente condizionata da una società che non si cura dei suoi desideri. I suoi personaggi femminili più riusciti e più amati, come la prudente e orgogliosa Elizabeth Bennett di Pride and Prejudice (1813), o l’assennata Elinor Daswood di Sense and Sensibility (1811), sanno di vivere in un mondo maschile, e di non dover ostacolare, di dover semmai completare, la promozione sociale degli uomini. Lo schema può essere in vario modo dilazionato nell’intreccio narrativo, ma è esemplificato con irridente concisione nella parabola esistenziale di Captain Weston: «Fece fortuna, comprò una casa, e prese moglie» (Emma, 1815, p. 13).
Su queste convenzioni sociali, vincolate a salde regole economiche, Jane Austen costruisce una sua etica e una sua moderna civiltà della conversazione. Confidando nella forza di valori come l’ironia, l’intelligenza, l’acume psicologico, il suo linguaggio è in grado di penetrare, seppur con la dovuta «gentilezza», nel vocabolario dominante, fatto di «buone maniere», «signorilità» e «buon senso», virtù necessarie al mantenimento dei diritti di classe, a un’adeguata «proprietà» e a un sufficiente «potere sociale» (più incisivo il vocabolo inglese, connection).
Jane Austen descrive la dinamica di queste relazioni con impeccabile, puntigliosa precisione. I suoi romanzi appaiono costruiti su una sproporzione perfettamente funzionante: da un lato la prevedibilità di pochi fatti, dall’altro la durata, talvolta estenuante, in cui gli stessi fatti vengono assorbiti, raccontati, commentati dalla società frivola dei personaggi. Ma proprio in questo contrasto la scrittrice rende percepibile la profondità del carattere umano, ponendoci sotto gli occhi la sua infallibile conoscenza del mondo e la sua rigorosa capacità stilistica. La scrittura di Austen è avvolgente, ma solo per chi riesca a superare l’iniziale impressione di chiacchiericcio, e sia disposto con pazienza a distinguere la voci, o a carpire nella monotonia di fondo la ricca ambiguità dei discorsi. Non a caso Virginia Woolf riteneva che una delle conquiste più importanti della Austen consistesse nell’essere riuscita a forgiare una «frase armoniosa, perfettamente naturale, adatta ai suoi scopi». Attraverso il suo linguaggio, la scrittrice che non poteva ancora, come la Woolf, rivendicare «una stanza tutta per sé», aveva però saputo ritagliare uno spazio nel romanzo contemporaneo, infondendo in ognuna delle sue eroine almeno il desiderio di una casa da condividere con il marito.
Eppure, l’immagine della zitella di provincia su cui tanto hanno insistito i suoi detrattori è stata dura da scalfire. Emerson, ad esempio – ma la lista potrebbe essere lunga – la definisce scrittrice priva di genio, interessata solo a ciò che dispregiativamente chiama marriageableness, «l’essere sposabile». Si dovrà aspettare fino agli anni Venti del Novecento perché questa autrice geniale possa incontrare i suoi lettori «ingegnosi», come lei stessa auspicava segretamente.
Risalgono a questo periodo, infatti, le pagine illuminanti di Virginia Woolf, ora raccolte in un volume intitolato Jane Austen, tradotto da Cristina Verrienti, ed edito da Elliot, uno dei quattro libri in uscita il 18 luglio con cui la casa editrice celebra la scrittrice. Virginia Woolf trasforma il gossip più becero tramandato dalla cerchia dei suoi familiari – e suoi primi biografi – in preziosi indizi della personalità artistica dell’autrice. Secondo un metodo critico consolidato in The Common Reader, la Woolf dà ampio spazio all’analisi delle opere minori, i famosi Notebooks, che Jane Austen iniziò a comporre fin da bambina, tra il 1787 al 1793; ne elogia la qualità comica, e dimostra una coerente evoluzione stilistica dagli esordi precocissimi a un romanzo della maturità, Persuasion (uscito postumo, 1818). Il lavoro di ricostruzione biografica tentato da alcuni eredi si può invece leggere in Ricordo di zia Jane e altri ricordi familiari, a cura di Giuseppe Ierolli (Elliot); mentre i tre volumi degli scritti giovanili, finora inediti in Italia, sono stati raccolti in Juvenilia, sempre a cura di Ierolli (ma per chi volesse averne solo un assaggio Garzanti propone una selezione dei romanzi brevi, L a bella Cassandra, traduzione di Milena Finazzi, in uscita il 27 luglio).
La casa editrice Elliot si ricorda, inoltre, di un altro tra i più accreditati fondatori del mito di Jane Austen. Rudyard Kipling nel 1924 scrive un racconto intitolato The Janeites (in italiano I Janeites, a cura di Giuseppe Ierolli), in cui un reduce della Prima guerra mondiale racconta di aver fatto parte, insieme ad altri soldati, di una società segreta, devotamente ispirata alla scrittrice. Il cortocircuito tra l’ambientazione militare di Kipling e l’evocazione domestica dei romanzi di Austen è fonte di grande ironia, ma anche prova del potere salvifico che, ancora una volta, la civiltà della parola può infondere in una società devastata dalla guerra.
Quale Jane Austen ci parla, dunque, nel nuovo millennio? Sicuramente non una donna relegata al suo piccolo mondo antico da un Impero in difficoltà, ma una scrittrice consapevole del valore dei suoi romanzi. Forse non radicale, come vorrebbe una recente e controversa biografia letteraria (Helena Kelly, Jane Austen, The Secret Radical, Icon Books Ltd, London 2016 e 2017), ma certo determinata a superare per mezzo della scrittura i limiti imposti dalla condizione sociale.
loading...