Lieve Totentanz per chiudere la nostra estate
A Sesto in val Pusteria, per ammirare la «Danza della Morte» affrescata dall’enigmatico Rudolf Stolz. Un ballo macabro eppure ammaliante, tra piccoli brividi e ritorni alla luce
di Francesco Maria Colombo
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Non è una mèta per l’inizio dell’estate, ma per la fine è perfetta. Va incominciato il viaggio quando il sole d’agosto non batte più, al mattino, mentre le cime di Lavaredo gettano sulla valle la loro ombra tricuspide che intirizzisce l’erba, fa umida e bluastra la terra e tutto vela di freddo e di attesa. È allora che bisogna visitare la prima stazione del percorso, il Kriegerfriedhof Nasswand, il Cimitero militare di Monte Piana sotto la Croda dell’acqua, in località Sorgenti, sei chilometri a Sud di Dobbiaco. Lì, durante la Grande Guerra, era accampato il centro di medicazione dell’esercito austriaco e lì venivano seppelliti i soldati vittime delle armi o delle slavine. Erano così tanti che nel 1915 venne creato il sepolcreto, il quale ospitò poi i caduti sulle linee di battaglia.
Oggi il monumento nazionale accoglie 1259 corpi, una generazione abbattuta. Sotto il tettuccio che sormonta ogni croce ci sono due nomi e due date. Ogni tomba dà ricetto a due soldati e chissà quale disegno arcano ha mai stabilito che Kiss János, 11.3.1916, e Dzambos Stefan, 7.11.1918, uomini che mai si conobbero e mai seppero l’uno dell’altro, dovessero coabitare in eterno. Sul pendio si sale lentamente, le croci sono disposte sui gradoni in lunghi filari; la via centrale, sgombra e più larga, mena a una cappella. Dietro il sacrario c’è il bosco con la sua infinita vita frusciante. Le tinte sono il verde cupo, il nero del legno verniciato, il bianco della ghiaia, il violetto delle genziane. Su diverse tombe sono appesi nastri con i colori dell’Ungheria: gli stessi dell’Italia.
Ma il Cimitero di Monte Piana non è la nostra destinazione: più a Nord, dopo Dobbiaco, si svolta a Est doppiando la Rocca dei Baranci e superando i Bagni di San Candido, con le rovine del Grand Hotel Wildbad che ospitò Francesco Giuseppe e che da tanti anni, depredato e abbandonato, giace come una reliquia del fasto imperiale. Poi si scende ai piedi della Dreischusterspitze e adesso sì, è mattino inoltrato, benedetto dal sole, e siamo arrivati al traguardo.
Sesto in val Pusteria è uno dei luoghi dove non si può immaginare nulla di maligno. È squillante di colori, i fiori alle finestre, le persiane tinteggiate, l’erba rasa. Le panetterie promettono lo Strudel. Gli empori profumano. I bar, dove la carta del menù è scritta a gesso sulle lavagne, ristorano con le birre ghiacciate e l’acqua delle fontanelle è ancora più fresca. Non c’è un petalo di margherita fuori posto.
Siamo venuti per vedere un’opera d’arte unica, senza parentele. Un portico scalinato, sotto il quale ci accoglie un San Cristoforo ligneo, si allarga sulla cima in una rotonda chiusa in alto da travi di legno e ritmata nel perimetro da finestrelle. Sulle pareti, in una fascia circolare dal diametro di circa dieci metri, ecco finalmente il Totentanz, la Danza della Morte, il capolavoro di Rudolf Stolz.
Il nome di Rudolf Stolz non è rimasto nella storia dell’arte, poiché della storia l’intera sua esistenza nega l’idea. Si potrebbe considerarlo alla stregua di quei musicisti che giorno dopo giorno componevano, per una corte o per una chiesa, contraddanze e mottetti, soli Deo gloria e paghi del proprio artigianato. Era nato a Bolzano nel 1874, figlio di un pittore e decoratore; aveva due fratelli, pittori e decoratori a loro turno.
Per tutta la vita, che fu lunga e operosa, ha affrescato volte, pittato cappelle, disegnato fêtes galantes contadine, dipinto carte da gioco e cartigli e arlecchini e favole con la volpe e con l’uva e timidi idilli campestri sulle pareti di case, alberghi, locande. Le belle figure sulla facciata del Farbenhaus Amonn a Bolzano, in piazza del Municipio, sono sue. Non andò mai più lontano di Milano, di Breslavia, di Danzica; la commissione più importante della sua vita furono gli affreschi per la stazione di Innsbruck, che le bombe alleate ridussero in macerie. Una volta, negli anni Venti, le sue opere transitarono nel padiglione della Secessione di Vienna, con la quale poco aveva da spartire. Era piccolo di statura, robusto, silenzioso; ebbe cinque figlie, una delle quali pittrice; suonava il Zither viennese e il violoncello; la madre gli aveva insegnato l’italiano, ma con gli anni lui se l’era scordato; aveva scarsa propensione per le cose pratiche, il denaro, le strategie per ottenere lavoro. Morì a Moso nel 1960: nel piccolo ma esemplare Museo Rudolf Stolz di Sesto c’è una fotografia della processione funebre.
È quasi mezzogiorno e il Totentanz nella rotonda riceve il riverbero del sole di fuori. Sette personaggi, il re, la beghina, il contadino, il neonato, il viandante, la giovane sposa, il vescovo, vengono raffigurati con i loro attributi e presso ciascuno è la Morte, spoglia o carica di falce e clessidra, e fa da compagno. I tenui colori dell’affresco, dove il tono terroso è graffiato da lame d’azzurro, spogliano di ogni connotazione macabra il racconto. La Morte è una figura sinuosa, mobile, tremolante, fatta di gelatinosa materia indistinta intorno alla struttura scheletrica, ed è ironica e gentile: regge al vescovo il pastorale, abbraccia il viandante, spenge con le dita la candela alla beghina. E più l’occhio si abitua alla scena, più si leggono le frasi in tedesco nei cartigli, proverbi e sentenze sull’ultima ora, più il tempo si ferma nella contemplazione e si rasserena, e più si viene colti da sgomento. La tenerezza della Morte che regge il neonato e gli canta la ninnananna, “Dormi dolce angioletto, ti desterai in Paradiso”, mette i brividi. Quelle figure, affrescate nel 1924, sembrano caricarsi di un’eredità antichissima, il genere del Totentanz germanico, i demoni medievali nelle pievi, qualcosa di atavico, di precristiano: e di spaventevole. Non è la Morte a venire riassorbita nel ciclo della vita, ma la vita a confessare quanto sia fragile, caduca, grottesca nel darsi tanta importanza, di fronte al molcere seducente della Morte, che sempre ha la meglio.
Un passaggio aperto nel perimetro della rotonda e siamo di nuovo a cielo aperto: è il camposanto di Sesto, il più colorato e scintillante di festa che si possa immaginare. Sulla facciata della chiesetta le statue della Madonna e dei santi brillano di verde, di blu, di scarlatto. Il cimitero, contornato dalle cappelle di famiglia (alcune delle quali sono affrescate da Stolz) e gremito di croci in ferro battuto e foglia d’oro, è un meraviglioso giardino botanico dove, ancora una volta, nulla di maligno può accadere. Le figure scolpite hanno volti e complessioni di montanari forti, la vernice luccica sotto il sole a picco. Un gruppo scultoreo di ingenuo realismo svela il corpo nudo dei dannati circondati dalle fiamme: sembra che danzino e le donne hanno labbra scarlatte e zinne opime. La musica è il frinire degli insetti. Intorno a noi, altissime, le cime eterne dei monti.
Nella chiesetta una pittura che adorna un vecchio orologio recita: “Omnes vulnerant, ultima necat”, “Tutte feriscono, l’ultima uccide”, ed è mentre leggiamo queste parole che suona il mezzogiorno.
Allora tutto si ferma, scompaiono le ombre e in mezzo a quei colori e a quell’antica festa pagana e cristiana e a un passo dalla danza della morte e dei morti nasce la paura. Il carosello panico parla del “demone meridiano” studiato da Roger Caillois, la vampa dello zenit, più tremenda e formidabile degli spettri della notte.
Chi era davvero Rudolf Stolz? Cosa cercavano di dirci le sue figure, lambite dalla fine? Forse non torneremo più qui, ma quelle immagini non lasceranno più la nostra memoria.
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