Intervista a Giuseppe Lippi

Lo scienziato papà della patente di immunità

È al comando della task force della Federazione internazionale di Chimica clinica e Medicina di laboratorio con l'obiettivo di armonizzare i protocolli sulla sicurezza dei professionisti che lavorano a contatto con il virus

di Valeria Zanetti

Posto di blocco a Vo' , uno dei centri più colpiti

3' di lettura

Da pochi giorni guida la task force della Federazione internazio–nale di Chimica clinica e Medicina di laboratorio (Ifcc) che concentrerà i propri studi sul Covid-19. Giuseppe Lippi, 52 anni, ordinario di biochimica clinica e biologia molecolare clinica dell’Università di Verona, oltre che direttore del Laboratorio di chimica clinica ed ematologia dell’azienda ospedaliera universitaria scaligera, un curriculum fitto di pubblicazioni e riconoscimenti internazionali, è uno dei migliori uomini di scienza che l’Italia schiera a contrasto del virus, responsabile della pandemia mondiale.

Professore quando comincia il vostro lavoro? Da cosa partirete?
La task force che coordino è composta da cinque studiosi, me compreso, e si avvale della collaborazione di sei consulenti appartenenti alle sei Federazioni di medicina di laboratorio da Africa, America Latina, Arabia, Asia-Pacifico, Europa e Nord-America che compongono la Federazione internazionale. Abbiamo iniziato a lavorare da qualche giorno. Il primo obiettivo è armonizzare i molti protocolli sulla biosicurezza dei professionisti che operano nelle medicine di laboratorio dei vari Paesi del mondo.

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Ci si può ammalare anche in laboratorio?
Pur non svolgendo un’attività di “trincea”, a diretto contatto con il paziente, professionisti di laboratorio devono essere tutelati, poiché rivestono un ruolo prezioso: senza i test di laboratorio non è possibile diagnosticare e nemmeno monitorare il decorso dei pazienti con Covid-19.

Quali sono gli obiettivi della task force?

Ci proponiamo di produrre informazioni e indicazioni sempre aggiornate e armonizzate in tutto il mondo su epidemiologia, patogenesi e diagnostica di laboratorio, di sviluppare raccomandazioni per l’esecuzione e la lettura dei test diagnostici, di concertare gli studi internazionali.

C’è confusione di informazione anche tra i medici di laboratorio sul Covid-19?
In realtà questo virus è molto più infido e subdolo di quanto era dato supporre all’inizio. Le informazioni preliminari arrivate dalla Cina non hanno sempre avuto un riscontro univoco sulla nostra popolazione. Questo perché le caratteristiche genetiche, epigenetiche ad anche ambientali sono diverse, ed è quindi ragionevole supporre che l’interazione dei virus con la popolazione italiana generi quadri clinici diversi. Stiamo raccogliendo dati clinici e di laboratorio, per capire meglio il comportamento biologico del virus in Italia, il suo impatto sulla popolazione e le possibili strategie terapeutiche, alcune delle quali hanno già prodotto risultati incoraggianti.

Perché in Europa non ci siamo allertati per combattere il virus appena appreso cosa stava succedendo in Cina?
Le informazioni in arrivo inizialmente dalla Cina non sempre hanno trovato oggettivo riscontro nei nostri pazienti, per i motivi appena descritti. Lo stesso tasso di mortalità cinese è 3-4 volte inferiore a quello riportato dall’Istituto superiore di sanità. Osservando però il numero di urne funerarie accumulate a Wuhan, è ragionevole avanzare qualche dubbio sull’accuratezza dei dati diffusi.

A parte il tampone quali altri test diagnostici sono disponibili per individuare la presenza del virus?
Al momento la diagnosi eziologica, per identificare correttamente il virus, è possibile con l’utilizzo di test di biologia molecolare, che evidenzino la presenza di acidi nucleici virali (Rna) nel paziente. La risposta immunologica e la relativa analisi della risposta anticorpale servono a verificare un avvenuto contatto con il virus, ma non necessariamente la presenza. Hanno quindi un prevalente significato di sorveglianza epidemiologica.

In Veneto sta partendo una nuova sperimentazione, messa a punto da lei e dal professor Mario Plebani, del dipartimento di Medicina di laboratorio dell’Azienda ospedaliera di Padova. Di cosa si tratta?
In Veneto sta partendo una nuova sperimentazione, messa a punto da lei e dal professor Mario Plebani, del dipartimento di Medicina di laboratorio dell’Azienda ospedaliera di Padova. Di cosa si tratta?Di un progetto regionale finalizzato a determinare gli anticorpi classe IgG ed IgM contro il coronavirus, che consentiranno di definire se un soggetto li ha sviluppati. Si inizierà con i dipendenti del Servizio sanitario regionale e con i pazienti delle case di riposo. Validata l’operazione, si valuterà l’ipotesi di estendere l’analisi a tutti i veneti, iniziando dai lavoratori che, se immunizzati, potranno uscire finalmente di casa.

Sarà possibile a breve acquistare il kit per il test anche in farmacia ed effettuarlo a domicilio?
Ne esistono già molti in commercio, ma è necessario fare attenzione. Abbiamo avviato a Verona e Padova uno studio per la valutazione di alcuni di questi kit. Speriamo a breve di poter rendere pubblici i risultati.

Si possono fare previsioni sulla situazione a sei o sette mesi? Il virus sarà in regressione?
Purtroppo, è difficile fare previsioni. I numeri degli ultimi giorni sembrano confortanti. Questo però non significa aver vinto la malattia. Bisogna scongiurare le conseguenze di un secondo picco, che può avere effetti anche peggiori del primo.

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