Lo sguardo acuto di Panerai sull’informazione
Con l’asciuttezza del vecchio cronista guarda anche ai social e vede una speranza per i giornali
di Paolo Bricco
3' di lettura
Il mondo che non c’è più. Il mondo che c’è. Il mondo che non c’è ancora. Paolo Panerai – 77 anni, firma di lungo corso del giornalismo italiano e fondatore nel 1986 della casa editrice Class Editori – usa i quotidiani e i periodici come metafora. In Le mani sull’informazione. I retroscena dell’editoria italiana racconta la nostra carta stampata per raccontare, in realtà, la storia del nostro Paese. Il libro è denso di episodi, anche privati, ma non scade nella mera aneddotica. Nel caos della P2 diventata azionista ombra del «Corriere della Sera», Angelo Rizzoli jr – prima dell’arresto suo, del fratello Alberto e dell’amministratore delegato Bruno Tassan Din nel 1983 – è «sottoposto a ogni forma di pressione fino a cadere in alcuni momenti nell’uso di sostanze chimiche». L’indugiare nella petite histoire serve a Panerai per ricostruire il quadro. E, così, le debolezze personali di Angelo Rizzoli jr si incastrano perfettamente nella natura degenerativa che, in quegli anni, sperimenta la finanza lombarda del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e nella deviazione criminale della massoneria sottoposta alla leadership (e all’anima nera) di Licio Gelli. Tutti questi elementi di tensione pulsante – descritti da Panerai – si inseriscono in maniera coerente con l’ambiguo profilo di un «Corriere della Sera» che, in quel mondo che non c’è più, era stato occupato dal Partito Comunista: «Al momento del mio ingresso alla direzione del “Mondo”, direttore del “Corriere della Sera” era Piero Ottone, che aveva assunto in massa giornalisti legati al PCI dalla fallita Palazzi (la casa editrice del settimanale “Tempo”) per garantirsi la pace sindacale, visto che allora in via Solferino dettava legge il consiglio di fabbrica».
Panerai ha scritto un libro personale ed emotivo, ma non sentimentale o retorico. Con partecipato distacco ricostruisce la grande influenza della Fiat nella nostra vita pubblica che, su Via Solferino, assume le sembianze di Gianni Agnelli che, dopo il periodo della P2, dice con durezza autocratica: «Siamo venuti per bonificare». In realtà, la casa editrice era già stata riportata in ordine all’interno del repulisti del Banco Ambrosiano e della nascita del Nuovo Banco Ambrosiano. La tracotanza dell’Avvocato appare fuori luogo, tanto che pochi mesi dopo il «Corriere» – in una operazione di vendita di una quota di minoranza – è valutato mille miliardi di lire. L’impostazione generale del libro è equilibrata. Panerai non ha il desiderio di épater le bourgeois. Racconta, per esempio, un particolare non conosciuto sull’ingresso dei libici della Lybian Arab Foreign Investment Company nella Fiat ultra-indebitata del 1976, che riequilibra l’immagine (e la sostanza) di Gianni Agnelli: «Due giorni prima della firma del contratto FIAT-Libia, il direttore della “Stampa” Arrigo Levi scrisse un editoriale in cui descriveva Gheddafi come terrorista. Con accortezza Levi mandò, prima di pubblicarlo, il testo dell’articolo ad Agnelli. L’Avvocato riunì i più stretti collaboratori del settore editoriale e fece in poche parole un discorso del genere: se fossimo solo editori di un quotidiano, pubblicheremmo senz’altro l’articolo, ma siamo anche industriali, e per questo non dovremmo pubblicarlo; io però sono dell’avviso di pubblicarlo comunque. E Levi lo pubblicò. In questa scelta c’è tutto l’avvocato Agnelli». E c’è la centralità dei giornali. Una centralità che è durata a lungo ma che, almeno dall’avvento della televisione, è trascolorata.
Panerai, con l’asciuttezza del cronista di vecchia scuola e la propensione a delimitare con sorvegliata razionalità il proprio percepito tipico di chi è stato imprenditore (nel suo caso editore), definisce la complessità del mondo che c’è: l’invecchiamento dei lettori della carta stampata, il ridimensionamento delle testate storiche, il grande potere di Google e di Facebook sulla determinazione di che cosa sia o no considerata una notizia e sulle dinamiche della raccolta pubblicitaria, la complicata transizione verso l’online. Anche se, in un passaggio del libro, sembra aprirsi uno spiraglio: «Il 10 giugno 2020 le fake news hanno superato in rete le notizie vere e corrette, secondo una ricerca dell’ISI, la fondazione creata a Torino dal grande fisico e scienziato dei dati, professor Mario Rasetti», scrive Panerai. Quasi che - ripartendo dalla credibilità delle persone, dalla veridicità delle notizie e dall’autorevolezza delle analisi - l’informazione (anche italiana) possa avere un futuro, nel mondo che non c’è ancora ma che (forse) inizia a intravedersi.
loading...