Lo shock è da offerta, giusto non cambiare la politica monetaria
di Giovanni Tria
7' di lettura
La scelta della Bce di non modificare, a fronte dell’aumento del tasso di inflazione, i tempi di uscita dal programma di acquisti di titoli con il quale ha sostenuto le economie europee durante la crisi pandemica, ci sembra giusta, anche se non ci pare convincente l’argomento posto a sostegno di questa scelta.
La Bce dichiara di non dover cambiare politica perché nelle sue previsioni l’inflazione che osserviamo oggi è temporanea, dovrebbe attenuarsi già nel 2022, per poi tornare sotto i livelli desiderati nei due anni successivi, cioè nel 2023 e nel 2024. Questa previsione non convince, e non vorremmo che, se fosse smentita a breve, cambiasse la scelta corretta di non irrigidire anticipatamente la politica monetaria. Essenzialmente (vedi l’intervista di Philip Lane, chief economist della Bce, sul Sole 24 Ore dell’11 gennaio) le valutazioni sulla temporaneità dell’inflazione si basano sul fatto che non si riscontrano ancora nei mercati europei comportamenti dettati da aspettative di inflazione tali da determinare l’avvio di una spirale inflazionistica. In sostanza, ci si riferisce al fatto che le contrattazioni nei mercati, soprattutto nel mercato del lavoro, non incorporano ancora futuri aumenti attesi dei prezzi. Quando questo avviene, l’aumento dei prezzi si autoalimenta nella spirale prezzi-salari. Ora il gioco delle aspettative è importante anche nei mercati reali, non solo in quelli finanziari, ma l’economia reale è complessa e si muove più lentamente di quella finanziaria. L’aumento dei prezzi alla produzione, oltre che di quelli al consumo, che oggi osserviamo è un fenomeno sostanzialmente globale e non può essere liquidato con facilità dichiarando che le scarsità di offerta che ne sono la causa scompariranno rapidamente. I colli di bottiglia, l’aggiustamento verso l’alto dei prezzi dell’energia, al di là delle oscillazioni speculative, le guerre commerciali e la ricomposizione delle catene produttive globali sono in parte manifestazioni di problemi strutturali o in grado di generarli, e quindi di indurre, se non rapidamente risolti, “aspettative” di inflazione, che sono il fenomeno che le banche centrali temono. Come già affermato su queste colonne, se l’aumento dei prezzi che oggi osserviamo determina forti impatti sui redditi d’impresa di alcuni settori e sui redditi da lavoro, non è affatto detto che l’inflazione possa rimanere temporanea. Anche se i prezzi oggi aumentati non continuassero ad aumentare, ma neppure diminuissero per tornare al livello precedente, vi sarebbe un “non temporaneo” mutamento della distribuzione dei redditi reali: alcuni settori e alcune categorie si sarebbero avvantaggiati, altri avrebbero perso. Inoltre, poiché gran parte dell’attuale spinta al rialzo dei prezzi viene da prezzi all’importazione, è il reddito reale complessivo del Paese che si riduce. L’aggiustamento può essere affidato al mercato, ma in tal caso è difficile pensare che, a fronte di un aumento dei prezzi permanente anche se realizzatosi in un solo anno, non vi sia una richiesta di adeguamento salariale, una volta che sarà superata la fase di ripresa in cui i redditi crescono rispetto alla caduta del 2020 e in cui la preoccupazione principale è quella di recuperare i posti di lavoro pre-crisi. È facile poi trasformare un approccio contrattuale backward looking, cioè che guarda indietro per adeguarsi all’inflazione passata, a un approccio che anticipa la dinamica dei prezzi, che è ciò che le banche centrali appunto non amano.
Si sta discutendo oggi della possibilità che sia il bilancio pubblico a farsi parzialmente carico dell’aggiustamento, soprattutto con riferimento ai prezzi dell’energia. Ma sarebbe un provvedimento temporaneo o permanente? È una strada difficile da lasciare una volta imboccata.
Se siamo dubbiosi sulla temporaneità dell’inflazione, perché allora pensiamo che la posizione della Bce sia giusta? Perché una stretta monetaria non sarebbe la risposta corretta a un’inflazione che nasce da shock di offerta e non da shock di domanda. Le attuali carenze di offerta, che le transizioni digitali e ecologiche in cui tutti i Paesi si stanno impegnando rischiano nel breve periodo di acutizzare, hanno bisogno di crescita e di politiche mirate a sostegno dell’offerta. Queste sono compito delle politiche di bilancio e richiedono maggiore cooperazione internazionale. La politica monetaria deve tener conto di questi obiettivi e un aumento dei tassi di interesse non è la risposta giusta ai problemi di aggiustamento strutturale che oggi sono alla base della spinta inflattiva. Un aumento dei tassi di interesse avrebbe due effetti negativi sulle imprese. Il primo sarebbe quello di aumentare i costi, il secondo quello di influenzare le politiche di prezzo spingendo ad aumentare i mark up, ove possibile, e non a ridurli, poiché tassi di interesse elevati spingono a dare maggior valore ai profitti attuali rispetto a quelli futuri. Sono, quindi, le politiche di bilancio che dovranno continuare a essere protagoniste, a condizione che siano dirette soprattutto al sostegno dell’offerta e non della domanda, che la spesa pubblica si sposti su quella per investimenti e che anche questa tenga conto, nei tempi e nelle dimensioni, della capacità di aggiustamento delle produzioni per non creare ulteriori “temporanee” scarsità di offerta. Possibilmente la politica monetaria dovrebbe accomodare le scelte di bilancio, ovviamente se virtuose.
Il parlamento sembra aver raggiunto un accordo di massima sulla legge delega per la riforma fiscale. Il punto più condiviso è quello che riguarda la necessità di ridurre la pressione fiscale diretta, cioè l’Irpef, sulle classi di reddito medio basse. Ma per ciò che riguarda la dimensione possibile di questa riduzione, un tema che sembra dimenticato nel dibattito è quello del possibile spostamento del prelievo dalle imposte dirette (Irpef) alle imposte indirette (Iva), cioè dai redditi dei fattori produttivi, che nel caso dell’Irpef sono sostanzialmente i redditi da lavoro, oltre che da pensioni, alla tassazione dei consumi. Il ministro Tremonti definiva questo spostamento “dalle persone alle cose”. Una dimenticanza che è molto strana perché, in un periodo di europeismo condiviso, si elude proprio una raccomandazione tradizionale della Commissione europea. Una raccomandazione il cui fondamento sta nel fatto che questo spostamento del prelievo favorisce la crescita a parità di pressione fiscale complessiva. La ragione è che si ridurrebbe il cuneo fiscale, che entra nei costi di produzione, determinando un aumento delle remunerazioni al netto delle tasse. Ma questo spostamento di prelievo sarebbe anche utile alla crescita perché determina una “svalutazione fiscale”, poiché l’Iva non grava sulle esportazioni, mentre colpisce i consumi di beni e servizi importati in egual misura rispetto a quelli prodotti sul territorio nazionale. In tal modo si recupera competitività internazionale. Non è un caso, inoltre, che nell’economia globalizzata, per tassare localmente i profitti delle multinazionali, si stia valutando di prendere come riferimento le loro vendite nei vari Paesi. E anche nelle discussioni sulla tassazione delle ricchezze si mette in rilievo che quelle personali, in vario modo legalmente o non legalmente occultate, si riflettono nel livello di vita dei beneficiari
al momento del consumo.
Il fatto rilevante è che seguire questa strada permetterebbe oggi una riduzione del prelievo Irpef sui redditi medio-bassi doppio o anche triplo rispetto a quello di cui si discute e ciò faciliterebbe la definizione del “metodo” con il quale ridurre in misura percepibile l’imposizione diretta sulle classi di reddito medio e medio-basso. C’è da decidere, infatti, “come” operare la correzione e le sue dimensioni. In altri termini, vi è da una parte il problema di come finanziare la riduzione del prelievo Irpef e dall’altra il problema di definire la struttura del prelievo, il grado di progressività e come applicarla. Su questo secondo punto, il dibattito politico si è concentrato su due possibili alternative ben descritte, come hanno ricordato Paladini e Visco sul Sole del 30 giugno, nell’ottimo rapporto presentato in una audizione al Parlamento dal direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, la professoressa Fabrizia La Pecorella, e ben studiate nello stesso Dipartimento fin dal 2019. La prima alternativa consiste essenzialmente nella riduzione, da 5 a 3, del numero di aliquote applicate per scaglioni di reddito. La seconda ipotesi è quella di passare al cosiddetto modello tedesco, cioè disegnare una curva continua di aliquote marginali, che coinciderebbero sostanzialmente con quelle medie effettive, da applicare per ogni singolo livello di reddito. Avendo già preso posizione su questa rubrica a favore di questa seconda alternativa (15 agosto 2020), ne richiamo i motivi fondamentali. Le maggiori attrattive del modello tedesco risiedono nella sua trasparenza e nella sua flessibilità. Trasparenza perché ogni percettore di reddito saprebbe, senza fare calcoli personali, quale percentuale del suo reddito deve versare allo Stato, che è ben diversa da quella che si legge nella sua aliquota marginale. L’argomento di chi parla di complicazione “algoritmica” o matematica per la determinazione della curva delle aliquote è fuorviante perché il compito del calcolo è dell’amministrazione fiscale, e non è complicato perché basta decidere quale debba essere, mentre al contribuente verrebbe solo comunicata la percentuale effettiva del suo reddito che deve pagare. Quanto alla flessibilità, va considerata da un duplice punto di vista. Permette di decidere in modo mirato i livelli di reddito da beneficiare oggi con una riduzione di prelievo, disegnando con precisione la curva della progressività, ma permette anche con facilità di appiattire progressivamente, in futuro, la curva delle aliquote fino al livello desiderato di reddito. In altri termini, sarebbe facile spostare verso livelli superiori di reddito la progressività del prelievo dettato dalla Costituzione, man mano che l’equilibrio della finanza pubblica lo permetterà e secondo le scelte politiche discrezionali che sono alla base della democrazia. In ogni caso, deciso il metodo, l’importante è ridurre progressivamente in misura significativa la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi. Lo si dice da decenni, almeno da quando l’inflazione alta fece lievitare i redditi nominali, ma non quelli reali, con la conseguenza che le aliquote concepite per redditi medio-alti finirono per colpire anche i medio-bassi. Il dibattito sul fiscal drag, come venne chiamato il fenomeno, fu intenso ma senza effetti rilevanti. La fame di gettito fiscale a fronte di spesa pubblica crescente, purtroppo non per investimenti, ha fino a oggi sempre collocato questa esigenza di correzione del prelievo nella cartella dei buoni propositi.
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