Lo smart working del futuro deve avere orizzonti più ampi
Il presupposto è che i lavoratori siano in grado di farlo (principio di responsabilità) e le imprese di permetterlo (capacità organizzative)
di Alessandro Pedrazzini *
3' di lettura
In questo periodo, complice un evento esterno imprevedibile, è esploso l’approccio allo smart working, in alcuni casi confuso con il telelavoro. In realtà la distinzione è netta e coinvolge modelli organizzativi e comportamenti manageriali che ci portano ad affrontare il modello dello smart working in modo più ampio e definitivo, una volta terminata l’emergenza.
Lo smart working” è nato come un modello di organizzazione del lavoro che, supportato dalle tecnologie, permettesse «ai dipendenti di essere felici e realizzati» decidendo in modo autonomo la distribuzione dei carichi di lavoro e il luogo in cui lavorare.
Dal lato dell’organizzazione aziendale è un modo per essere in grado non solo di rispondere alle esigenze delle persone, ma di creare spazi di lavoro ottimizzati che consentono risparmi sugli affitti e facility, con tecnologie che agevolano i processi lavorativi dell’impresa.
La difficoltà a introdurre questo modello è collegata ad un approccio manageriale basato sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati; ci riferiamo quindi ad un’organizzazione del lavoro che dia alle persone la possibilità di auto-organizzarsi nel dove-come-quando per svolgere l’attività.
Il presupposto di questo modello è che i lavoratori siano in grado di farlo (principio di responsabilità) e le imprese di permetterlo (capacità organizzative), individuando processi che mettano in linea delega, controllo e valutazione in modo diverso dai tradizionali modelli manageriali descritti precedentemente.
Nel 2019 sono circa 570 mila le persone in smart working, in crescita del 20% sul 2018. Questa modalità di lavoro è più frequente nelle grandi aziende (il 58% di esse segue dei programmi di lavoro agile), piuttosto che nelle piccole e medie (con un 12% di utilizzo). Sono sempre più le grandi aziende italiane ed estere, presenti in Italia, a introdurre politiche di lavoro agile, di cui lo smart working è parte: per alcune di esse le dimensioni e la portata del know-how tecnologico rendono le politiche di smart working uno sviluppo quasi naturale delle loro policy di Risorse Umane.
Quello tra Pmi e smart working, in Italia, è un matrimonio ancora tutto da fare. Secondo i risultati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, nelle Pmi italiane la diffusione dello smart working è ancora molto limitata: oltre una Pmi su due sostiene di non esserne interessata. Le aziende che adottano questa modalità di lavoro mostrano due aree di benefici:
1) l’azienda ottiene con lo smart working un aumento della produttività, la riduzione dell’assenteismo e di straordinari, ovvero una diminuzione dei costi.
2) I lavoratori, con una maggiore flessibilità tra «dove-come-quando», hanno una maggiore possibilità di bilanciare i propri tempi di vita, una maggiore autonomia e libertà che si traduce in un aumento di motivazione, soddisfazione e miglioramento del clima aziendale.
Analizzando in profondità il fenomeno possiamo dire che esistono nel modello punti di attenzione che meritano una sottolineatura:
1) parcellizzazione del lavoro e circolarità delle conoscenze: il passaggio della conoscenza, la comprensione dei processi organizzativi è collegata intimamente anche alla prossimità e alla socializzazione informale (per esempio incontri a pranzo, al caffè, ecc.), che non si ripeterebbe con le nuove forme di lavoro. Le modalità “logistiche” non sono ininfluenti nella produzione e socializzazione delle conoscenze. Non è la stessa cosa lavorare da casa e lavorare in azienda, oppure in spazi di co-working piuttosto che in uffici stabili. La situazione si aggrava quando lo smart working è collegato a lavori molto parcellizzati.
2) Sentirsi parte e socializzare: non è solo una questione di lavoro. Il lavoratore è un «animale sociale» come tutti gli esseri umani. Le adesioni ai gruppi sono collegate al proprio modo di vivere, quindi se viene meno il gruppo di lavoro il senso di efficacia che sottende le relazioni di lavoro è difficilmente ripetibile con una presenza a distanza.
3) L'auto-organizzazione del lavoro è possibile quando le persone sono in grado di auto-organizzarsi, quindi gestiscono i tempi e le attività con competenza. Questo significa che, se il processo non è accompagnato, dopo la prima entusiastica adesione (quando si vedono solo i vantaggi), la delusione e il disincanto (prevalgono i problemi) possono incidere e ridurre sensibilmente l’engagement.
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