Lo spazio degli altri
Se siete così ingenui da pensare che l'avventura extraterrestre si giochi ancora sull'asse Usa-Europa-Russia, allora sbrigatevi ad aggiornare le vostre coordinate. Dal Costa Rica alla Cina passando per il Rwanda, in volo tra i protagonisti di una space race sempre più affollata
di Emilio Cozzi
7' di lettura
Marte, data astrale sconosciuta, avamposto sulle pendici del cratere Jezero. Qui, poco distante da dove atterrò il Rover della Nasa Perseverance, partito da Cape Canaveral il 30 luglio 2020, lavorano da mesi un indiano, un cinese e un arabo. A un certo punto, con un trasporto privato, alla base arriva Tom Cruise… Stacco, ritorno ai giorni nostri. No,quello descritto non è l'inizio del prossimo film del regista americano Doug Liman (che effettivamente vedrà Cruise recitare a bordo della Stazione spaziale internazionale) né un capitolo postumo della Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams. È quello che potrebbe succedere davvero sul Pianeta Rosso fra qualche decennio.
D'accordo, forse senza Tom Cruise, visto che – se è vero quanto ipotizza un paper dell'Accademia internazionale di astronautica – donne e uomini potrebbero toccare la superficie marziana fra il 2037 e il 2042. E, con tutto il rispetto per “Top Gun” Tom, pensarlo scorrazzare su altri pianeti all'alba degli 80 anni, be', è più roba da Clint Eastwood. Ma, stelle hollywoodiane a parte, tutto il resto – cioè i pellegrinaggi marziani di Cina, India ed Emirati Arabi Uniti, ma anche di Rwanda o Costa Rica – è una prospettiva vera. O almeno verosimile.
Mentre leggete queste righe, la missione emiratina Hope galleggia verso Marte con lo scopo di orbitargli intorno per analizzarne clima e atmosfera. Hope è la prima sonda marziana progettata da un Paese mediorientale, un Paese che sei anni fa non aveva nemmeno un'agenzia spaziale. È un piccolo passo per l'uomo, che in questo caso è rimasto seduto al centro di controllo (a Tanegashima, in Giappone, da dove il robot è partito il 19 luglio), ma un balzo gigantesco per il processo di progressiva apertura del settore, quello che in molti indicano come la “democratizzazione dello Spazio”.
Complici l'abbassamento dei costi di lancio e un nuovo approccio al rischio, che contempla l'utilizzo di strumenti meno durevoli ma molto più economici, quello che era appannaggio di una ristretta élite industriale è, ora, un settore sempre più accessibile. L'evoluzione è confermata dalle cifre. Mentre nel 2006 i Paesi a investire nello Spazio erano 47, oggi sono 70 e fra tre anni saranno 81 (fonte Euro Consult 2016).
Si stima che il giro d'affari del settore, nel 2017 di circa 383 miliardi di dollari a livello globale, potrebbe crescere fino a mille o addirittura 3mila miliardi entro 20 anni, così come la percentuale di spesa pubblica che lo sostiene, che secondo la banca di investimenti Merrill Lynch dal 16 per cento del 2017 toccherà quota 30 per cento nel 2026. Il motivo di tanto interesse non è poi così difficile da immaginare. Soldi? Meno cinismo, please.
Ad attrarre sempre di più l'interesse globale per le frontiere dell'esplorazione cosmica sono l'avanzamento tecnico-scientifico che il settore incentiva qui, sulla Terra, come i servizi e le applicazioni derivanti dalle infrastrutture spaziali abilitanti – si pensi all'agricoltura di precisione, alla medicina personalizzata, all'osservazione della Terra o, semplicemente, alle telecomunicazioni. Non meno importanti, ci sono il prestigio politico e il fatto che, come nessun altro, lo Spazio sia un settore strategico, strettamente legato al monitoraggio e alla sicurezza dei confini, alla cooperazione internazionale, alla produzione e allo stoccaggio di una mole crescente di dati.
Non è un caso che dal punto di vista economico, tutto questo dia slancio a un settore con uno dei ritorni di investimento più alti in assoluto. Per farla breve, aveva ragione il cinico: sì, soldi. Mai come prima d'ora lo Spazio è l'ultima frontiera del business, con buona pace del comandante Kirk e di tutto l'equipaggio di Star Trek. Più o meno preparate, sono molte le nazioni che l'hanno capito e stanno gettandosi nella mischia extraterrestre.
Il problema è che lo Spazio rimane, comunque, l'apice di quel che la nostra specie sa esprimere: in termini di ambizioni, certo, ma soprattutto di competenze scientifiche e tecnico-industriali. Detto altrimenti, non ci si improvvisa “spaziali” e i risultati di chi tenta di seguire le orme dei protagonisti storici del settore – Stati Uniti, Russia, Europa, Canada o Giappone – in alcuni casi farebbero ridere, se non coincidessero con investimenti milionari finiti, questi sì, nel vuoto.
Lo sa bene il Venezuela, che dopo aver lanciato il satellite Simón Bolívar nel 2008 per garantire un'ottima connessione internet a ogni cittadino, lo ha visto abbandonare per sempre la sua orbita operativa lo scorso marzo. E senza che, nel frattempo, la connessione di chicchessia fosse migliorata. In questi termini, beninteso, il discorso riguarda solo in parte Cina o India. Si è infatti parlato di new entry pronte a calcare le tracce di Nasa, Esa o Roscosmos, ma lungi dall'inseguirle, le agenzie spaziali cinese (la Cnsa) e indiana (la Isro) vogliono anticipare tutti al traguardo. E senza badare a spese o fallimenti.
Il 10 luglio, appena prima di lanciare Tian wèn-1, la sua seconda missione verso Marte – la precedente, a proposito, era finita dritta nell'Oceano Pacifico nel 2012 – la Cina aveva registrato il fallimento di un nuovo razzo vettore, il Kuaizhou 11. Conseguenze? Neanche una piega: la missione verso Marte è partita 13 giorni dopo con a bordo un Orbiter e un Rover che esploreranno in lungo e in largo il Pianeta Rosso.
Va ricordato, tra l'altro, che l'agenzia spaziale cinese a gennaio aveva portato il veicolo Yutu 2 sulla faccia nascosta della Luna, un'impresa riuscita a nessun altro. Sebbene sia impossibile sapere quale quota, dei 177,6 miliardi di dollari destinati alla Difesa nel 2019, sia dedicata allo Spazio, è probabile che gli investimenti cinesi superino i 14,4 miliardi dell'Agenzia spaziale europea (il budget Esa più alto di sempre, approvato lo scorso novembre).
D'altra parte, il Paese del Dragone ha già annunciato un progetto in quattro fasi (e siamo già alla terza) per fare in modo che intorno al 2030 i taikonauti – cioè gli astronauti cinesi – possano raggiungere le abbondanti risorse del Polo Sud lunare. Con buona pace della Russia, è ormai chiaro che, nella nuova space race, il vero concorrente degli Stati Uniti sia il gigante asiatico. Con qualche distinguo, il discorso vale anche per l'India. Sebbene la Isro abbia conquistato le platee internazionali per allunaggi tutt'altro che morbidi (come lo schianto del lander Vikram, nel settembre 2019, commentato in diretta tv dalle lacrime del direttore, Kailasavadivoo Sivan), le ambizioni extraterrestri indiane sono legittime e coltivate dal 1969, anno di fondazione dell'ente spaziale nazionale.
Lo testimoniano la promessa di portare un uomo sulla Luna nel 2022 (cioè due anni in anticipo rispetto ad Artemis, l'analogo programma della Nasa) e il fatto che proprio l'India sia il quarto Paese ad aver raggiunto Marte (nel 2014), dopo Stati Uniti e Russia, ma prima della Cina. Per questo, non stupisce il miliardo di sterline che la Barthi, multinazionale con sede a Nuova Delhi, in consorzio con il governo del Regno Unito, ha messo sul tavolo a inizio luglio per rilevare l'operatore satellitare Oneweb, che quattro mesi prima aveva portato i libri in tribunale.
La manovra consentirà al Regno Unito di sostituire il sistema di navigazione europeo Galileo, in seguito alla Brexit, e di porsi fra i pionieri dello sfruttamento satellitare, visto che Oneweb gestisce una costellazione pensata per garantire internet ad alta velocità in tutto il mondo (come la Starlink di SpaceX).
Quello del downstream, cioè dei servizi derivati dallo Spazio, è uno degli orizzonti più ambìti e proficui di tutti. Che, per esempio, anima sogni e obiettivi della nuova agenzia spaziale ruandese, la Rsa. Annunciata a giugno, la Rwanda Space Agency si dice pronta a sfruttare i dati spaziali per migliorare la pianificazione agricola, quella urbana, il monitoraggio dell'ambiente e la prevenzione dei disastri naturali.
Per questo, già nel 2019, il Rwanda aveva spedito in orbita il suo primo satellite, Icyerekezo, partito dal Centro spaziale guyanese e fabbricato in Francia. E sebbene il lancio fosse in partenariato proprio con la fallimentare Oneweb, sfruttare collaborazioni internazionali si è rivelata un'intuizione giusta, la chiave del futuro successo degli enti spaziali emergenti, che in Africa sono già 16. Sudafrica e Nigeria hanno i programmi più temerari: mentre il primo si concentra sui radiotelescopi (come il MeerKat, che con le sue 64 antenne a parabola alte quasi 20 metri è il più grande dell'emisfero Sud), l'agenzia nigeriana (la Nasdra) dice da anni di voler portare il primo astronauta africano in orbita entro il 2030.
Non è una boutade: con cinque satelliti già operativi, nel 2016 la Nigeria ha aiutato a tracciare gli ostaggi rapiti dal gruppo terroristico Boko Haram; in più, dà un contributo costante al monitoraggio del clima, attività cui lavora anche l'agenzia etiope con il satellite Etrss-1, che il 20 dicembre scorso ha per la prima volta proiettato il Paese oltre l'atmosfera.
In tutto, dal primo lancio egiziano del 1998, l'Africa ha spedito oltre l'atmosfera 41 satelliti, di cui 38 di nazioni singole. E conta poco, come detto, che i lanci sfruttino tecnologie o aiuti stranieri, cinesi ed europei soprattutto: nessuna nazione al mondo, oggi, sarebbe in grado di realizzare in autonomia i progetti extraterrestri più ambiziosi, come la permanenza sostenibile sulla Luna o il viaggio umano verso Marte.
Lo ha fatto intendere anche Donald Trump, che lo scorso 6 aprile ha emesso un controverso executive order per verificare il sostegno internazionale allo sfruttamento commerciale delle risorse lunari ed extra-atmosferiche: descritto altrimenti, un modo per attrarre l'imprenditoria privata nei ricchi quanto rischiosi orizzonti spaziali.
A proposito, Ad Astra Rocket Company, una delle imprese più innovative d'America, con un rivoluzionario propulsore magnetoplasmadinamico, il Vasimir, promette di raggiungere Marte in 39 giorni, invece dei sei/sette mesi necessari con i sistemi di lancio tradizionali. Ad Astra ha una sussidiaria in Costa Rica, dove sviluppa sistemi di trasporto a energia rinnovabile, ed è stata fondata da Franklin Chang-Díaz, il primo astronauta latinoamericano.
Se, prima di compiere 80 anni, Tom Cruise facesse davvero visita ad astronauti cinesi o arabi su Marte, sarebbe solo perché, oggi, lo Spazio lo stanno prendendo anche gli altri.
*Le immagini di questo servizio sono di Alessandro Albert
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