Spatial computing

Lo spazio virtuale può sempre riempirsi di senso reale

Tra realtà aumentata, virtuale ed extended proliferano mondi mltimediali e condivisi, da studiare sulla base di una nuova etnografia

di Simone Arcagni

4' di lettura

Battlefield è un videogame multiplayer di guerra piuttosto famoso. Ma non tutti sanno che non si può disertare in Battlefield. Che se si corre via dal campo di battaglia è l’algoritmo stesso a eliminare il giocatore. Che i luoghi che non sono direttamente interessati alla battaglia sono praticamente vuoti. Che i camerati non possono uccidersi tra loro perché l’algoritmo decide che i ruoli possono essere solo quelli di chi uccide il nemico o viene ucciso da lui. Che di tutti gli oggetti presenti solo le bandiere non possono essere distrutte. Tutte queste cose, e altre, ve le fa scoprire “ How to Disappear ”, cortometraggio ambientato proprio nel mondo di Battlefield e diretto da Total Refusal alias Robin Klengel e Leonhard Müllner. Parliamo di una sorta di documentario machinima - tecnica per hackerare i videogiochi e piegarli creativamente a usi narrativi o artistici - che riflette sul pacifismo dentro un game di guerra andando a forzarlo.

Mostrando così due cose fondamentali: come gli ambienti virtuali perpetuano alcune logiche reali. Dietro al divertimento si nascondono infatti modelli di pensiero e di comportamento. Dall’altra come questi spazi virtuali, non solo si appropriano di elementi etici e cognitivi reali, ma si riempiono di senso, producono esperienze, attività, condivisione. Sono cioè spazi in qualche modo reali. Spazi talmente reali che i registi decidono di riempirli di un’osservazione, non solo partecipata, ma anche ideologica, politica, attivando dentro il mondo virtuale una forma di attivismo e producendo una complessa riflessione sulle ragioni del pacifismo.

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Una pratica, questa, che mettono in campo anche in un’altra opera: “Operation Jane Walk”. Si tratta in prima istanza di una performance che avviene all’interno del videogame “Tom Clancy’s the Division” e poi di un film tratto dalla performance. Ancora una volta, quindi, un ingresso forzato, un hacking, di un mondo virtuale. Un mondo per molti decisamente familiare, visto il successo anche di questo gioco. E, ancora una volta, uno scenario di guerra. Siamo infatti calati in una New York post-apocalittica, ma i soldati che ci accompagnano decidono di non ingaggiare sparatorie, bensì di farci fare un giro turistico di Manhattan, ponendo l’attenzione sulla qualità realizzativa del mondo del game. Un gioco di guerra si trasforma così in un virtual tour live e partecipato andando, anche in questo caso, a innescare nuove riflessioni sulla fondamentale importanza di questi spazi nella nostra vita quotidiana e sulla possibilità di piegarli a esigenze diverse.

Sembra così emergere l’esigenza di una nuova etnografia che tenga conto anche dei luoghi virtuali che intanto si stanno moltiplicando. Pensiamo ai mondi social e a quelli immersivi con la virtual reality e la augmented reality. Nasce quindi la necessità di attraversare questi luoghi vestendo i panni di novelli etnografi, alla Marc Augé, osservando spazi fino ad ora non studiati con la dovuta attenzione. Potremmo essere sul limitare di un cambio di paradigma che porterà proprio questi spazi a rivestire una sempre maggiore importanza. E questo richiederà quindi uno sforzo cognitivo e per alcuni studiosi implicherà modifiche neuro-sensoriali tese ad abbracciare uno spazio aumentato e amplificato.

Parliamo della rivoluzione del cosiddetto spatial computing e delle tecnologie Xr (extended reality). Basti pensare che Epic Game (quelli di “Fortnite” per intenderci) ha da poco raccolto oltre un miliardo di dollari da investitori vari per realizzare Metaverse, il sogno di una piattaforma social completamente intermediale, multimediale, immersiva, condivisa e interattiva, che sembra realizzare le preconizzazioni di Jaron Lanier sulla realtà virtuale e quelle di Myron Kruger a proposito di quella che chiamava “realtà artificiale”. Chi si ricorda di Second Life? Parliamo di qualcosa di questo genere con servizi di ecommerce, noleggio, streaming e vendita, oltre che di messaggistica istantanea. Come affrontare questo cambio di paradigma? Intanto osservando questi mondi, mettendone a nudo i meccanismi, le logiche e sperimentando le possibilità di appropriarsene o di abbandonarli. Sì perché, seppure “reali”, questi spazi hanno delle differenze. Seppure sempre più sensibili (si pensi al lavoro di Mel Slater sulla sensoristica nella Vr) sono “altro”. Su questo punta l’attenzione “My Own Landscape” di Antoine Chapon, altro “documentario” ambientato nei mondi virtuali. Ancora una volta siamo in uno spazio di guerra, quello realizzato da un militare sviluppatore di giochi per la Difesa. Si tratta di un fenomeno crescente: giochi di simulazione che servono a reclutare, addestrare e curare i soldati. Mondi virtuali in cui si fa la guerra in sicurezza o si cerca pace e ristoro dopo l’esperienza violenta. Cyril è un soldato che si è addestrato in uno di questi mondi simulati, che poi è andato sul campo di guerra reale e, una volta tornato, rientra nel game, portando però uno sguardo diverso, mostrando i segni evidenti di un cambiamento a livello psichico e cognitivo.

Dal momento che avremo sempre più a che fare con avatar e ologrammi, dovremo fare i conti con i processi cognitivi che (parafrasando il capolavoro “Ghost in the Shell”) spingono i nostri “fantasmi” a stare in questi nuovi “gusci”. E dovremo fare i conti con i caratteri di questi ambienti che, seppure siano artificiali e virtuali, vengono da noi riempiti di senso, sentimenti, aspirazioni ed emozioni reali.

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